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Il cognato del “Tamunga” Morabito al vertice del traffico internazionale di droga

Incroci tra Sudamerica, Calabria ed Emilia Romagna nell’inchiesta “Aquarius”. Bologna come snodo del business. I “cryptophone” per eludere le intercettazioni. E un maxi sequestro di quasi 200mila dos…

Pubblicato il: 16/06/2020 – 18:37
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Il cognato del “Tamunga” Morabito al vertice del traffico internazionale di droga
BOLOGNA Una rete che dal Sudamerica portava la droga fino a Bologna, nodo di un traffico internazionale sgominato questa mattina da un’operazione dei Carabinieri realizzata grazie anche a tecnologie sofisticate. Sono 9 le persone (6 in carcere e 3 agli arresti domiciliari) raggiunte da ordinanza cautelare, emessa dal Gip presso il Tribunale di Bologna, Sandro Pecorella, su richiesta del sostituto procuratore presso la Dda, Roberto Ceroni, e ritenute responsabili, a vario di titolo, del reato di associazione a delinquere finalizzata al traffico, detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti. Gli arresti sono avvenuti nella città di Bologna, a Dicomano, in provincia di Firenze, ad Africo, nel Reggino, a Messina e a Tuscania, provincia di Viterbo. 
L’operazione Aquarius è scattata alle prime luci di questa mattina e ha messo fine a una rete di insospettabili al cui vertice, secondo gli inquirenti, ci sarebbe Nunzio Pangallo, cognato di Rocco “Tamunga” Morabito, primula rossa del clan Morabito, noto perché, dopo aver trascorso una latitanza di 23 anni in Sudamerica, era stato arrestato dalla polizia boliviana nel 2017, per poi evadere nuovamente nel 2019 dal carcere di Montevideo. Lo stesso Pangallo ha scontato una condanna di 15 anni per traffico di stupefacenti, durante la quale fu ulteriormente indagato perché continuava a dare ordini alla sua organizzazione dal carcere attraverso cellulari introdotti clandestinamente (Operazione “Sim Card”). I CRYPTOPHONE «Con questa operazione – ha spiegato il Comandante Provinciale Carabinieri Bologna, Colonnello Pierluigi Solazzo durante la conferenza stampa – siamo al livello più alto nel contrasto alla droga. Si tratta di una struttura ben organizzata, capace di portare quantitativi importanti destinati a varie regioni». Ma soprattutto la rete criminale si avvaleva di una serie di strumenti tecnologici di alto livello tanto che i Carabinieri nell’indagine hanno decriptato i telefoni anche grazie ai trojan. Infatti, il sodalizio criminale usava telefoni cellulari criptati, noti come “cryptophone”, per comunicare all’interno di una rete chiusa di comunicazione, alla quale si accedeva soltanto attraverso un cellulare che veniva fornito dai vertici dell’organizzazione. Tale circuito era costituito sia dai cryptophone, che venivano forniti solo ai membri collocati più in alto nella scala gerarchica del sodalizio, sia da apparecchi Gsm (non smartphone, quindi senza traffico dati) le cui Sim erano intestate a stranieri irreperibili. I cryptophone, del valore di 2.500-3.000 euro, venivano procurati da uno steward di una compagnia aerea albanese, che li importava in Italia sfruttando il suo lavoro. Questi apparecchi molto sofisticati si basano sull’utilizzo di chiavi cifrate di difficilissima decriptazione, in mancanza delle quali l’accensione del telefono comporta la cancellazione di tutti i dati contenuti. Secondo gli inquirenti, i cryptophone erano una sorta di status symbol all’interno dell’organizzazione perché solo i vertici ne disponevano. Proprio l’alto livello di tecnologie usate ha portato i Carabinieri ad avvalersi di piu’ strumenti di indagine. Quindi non solo trojan, ma anche pedinamenti e microfoni posizionati sotto le panchine dei parchi dove i vertici si incontravano. IL SEQUESTRO NEL 2016 L’indagine, però, ha radici lontane. Tutto nasce dall’operazione “Mi vida” del marzo 2016, quando la Polizia spagnola, su indicazione del Nucleo Investigativo dei Carabinieri di Bologna, sequestrò 505 chili di cocaina, destinata al mercato bolognese, a bordo di una barca vela partita dal Brasile che porto’ all’arresto di sei persone. Il ritrovamento durante le perquisizioni di un telefono BlackBerry criptato lasciò supporre il coinvolgimento di criminali di livello molto alto. «Allora alcuni elementi – spiega il comandante del reparto operativo Marco Francesco Centola – hanno lasciato supporre che ci fosse una struttura superiore, più salda e consolidata». Così le indagini sono proseguite fino all’epilogo di oggi. Uno degli elementi chiave dell’indagine è il sequestro di 3 chili di cocaina. La sostanza, una volta analizzata nel Laboratorio Analisi Sostanze Stupefacenti del Nucleo Investigativo, è risultata con un grado di purezza del 95%. Secondo i tecnici, una volta tagliata, avrebbe potuto trasformarsi in 65.000 dosi per ogni chilogrammo sequestrato. NO ALL’AGGRAVANTE MAFIOSA Gli inquirenti ritengono che gli indagati siano vicini alla ‘ndrangheta, in particolare al clan Morabito-Bruzzaniti-Palamara ed alla ‘ndrina di San Giovanni in Fiore, in provincia di Cosenza. Nel corso delle indagini, inoltre, diversi collaboratori di giustizia sono stati sentiti dagli inquirenti. Dalle indagini, però, non sono emersi elementi sufficienti che possano far ritenere che le attività criminali messe in atto fossero finalizzate a favorire l’organizzazione mafiosa. Nell’ordinanza cautelare non è stata riconosciuta l’aggravante mafiosa. Tra gli indagati anche il titolare di un caffè in via Petroni, nella zona universitaria di Bologna, e quello di un noleggio auto in zona San Donato.
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