di Roberto De Santo
COSENZA La diffusione dell’epidemia da Covid-19 che ha determinato il blocco nei mesi scorsi delle attività produttive ha portato ad uno shock economico del sistema produttivo calabrese. Una doccia ghiacciata che ha gelato le timide speranze di ripresa che pur nei primi mesi del 2020 si erano manifestate. Ma al contempo ha generato opportunità derivate dalla fase emergenziale. Si è affacciato ed imposto, ad esempio, un nuovo modello organizzativo del lavoro che prevede la possibilità di produrre a distanza. Telelavoro, smart working o lavoro agile sono entrati nelle metodologie di prestazione lavorative di interi segmenti produttivi. Seppur in maniera differenziata tra territori. E la Calabria non ha fatto eccezione. Anche se, per caratteristiche strutturali delle aziende e per il divario digitale esistente, il fenomeno ha avuto dimensioni ridotte rispetto ad altre parti del Paese. Eppure questa metodologia ha arginato l’emorragia di posti di lavoro che si sono registrati durante, ma soprattutto dopo i mesi del lockdown del Paese.
Stando ai dati dell’Istat, è stato – assieme all’attivazione degli ammortizzatori sociali – uno degli strumenti che ha permesso di contenere maggiormente gli effetti negativi dell’emergenza. Nel report “Situazione e prospettive delle imprese nell’emergenza sanitaria Covid-19” è emerso che in Italia nel periodo del lockdown il ricorso allo smart working è cresciuto decisamente rispetto ai mesi precedenti: dall’1,2% del bimestre gennaio-febbraio all’8,8% dei mesi del blocco imposto dalle regole per contenere la diffusione del Covid per poi assestarsi al 5,3% da maggio in poi. Segno che questa metodologia di lavoro sta entrando nei meccanismi di organizzazione delle imprese. Con qualche distinguo, però, visto che l’introduzione del lavoro agile ha interessato maggiormente le aziende di grandi dimensioni (il personale impiegato in smart working in questo caso ha raggiunto punte del 31,4% nella fase del lockdown) e determinati settori (in primis i servizi di comunicazione, informazione e informatica, le attività professionali scientifiche e tecniche, l’istruzione e la fornitura di energia elettrica e gas). Ed anche la Pubblica Amministrazione si è adeguata al nuovo modello organizzativo.
Nel 2018, secondo i dati del ministero della Funzione pubblica, in Italia solo 8% delle pubbliche amministrazioni aveva avviato progetti legati al lavoro agile. Dopo le misure emergenziali disposte per contenere la pandemia la situazione è mutata decisamente. Al 21 aprile, secondo i dati della Funzione pubblica, ben il 73,8% delle amministrazioni ha attivato servizi di lavoro a distanza. Sia in termini di telelavoro sia di smart working. Anche in questo caso con forti divari tra le regioni. Dal 100% dell’Abruzzo, passando al 98,4% di Lombardia e 96,6% del Lazio, si arriva giù in basso con la Calabria ultima al 46%. Indice di quanta strada debba ancora compiere la nostra regione anche in questo settore. Un modello di lavoro che potrebbe offrire opportunità decisamente interessanti per lo sviluppo economico dell’intero territorio. Sotto questo profilo si sta registrando in tutto il mondo – soprattutto negli Stati Uniti – il fenomeno dello spostamento di unità produttive e di personale, sfruttando proprio le tecnologie a distanza, in aree lontane dalle metropoli a vantaggio di zone in cui il contesto ambientale-climatico ed economico rende più vivibile la condizione dei lavoratori. Una scelta che potrebbe essere replicata anche in Italia a vantaggio di regioni come la Calabria per attrarre anche professionalità con un alto profilo formativo. Una recente ricerca “Covid-19 – L’impatto sui giovani talenti”, condotta dal Centro Studi Pwc su iniziativa congiunta di Talents in Motion, Pwc e Fondazione Con il Sud, ha dimostrato come stia crescendo la propensione dei giovani talentuosi espatriati a rientrare in Italia sfruttando lo smart working.
Ma per agganciare questo fenomeno occorre colmare il divario ancora troppo elevato tra il Sud e il Nord del Paese ed in particolar modo della Calabria. Come ha evidenziato a più riprese il ministro per il Sud e coesione territoriale, Giuseppe Provenzano, che si è soffermato sulle opportunità aperte dal South working proprio in occasione della presentazione del rapporto: «I dati della ricerca confermano che il tema dei talenti è centrale, non solo nella sua dimensione di immigrazione all’estero di giovani qualificati, ma anche di ritorno in Italia. Attraverso le persone e le loro competenze si possono portare in Italia e nel Mezzogiorno idee e capitali necessari a sviluppare, creando così le condizioni per una crescita economica».
Ma la strada dei processi di trasformazione del mondo del lavoro su questo fronte in Calabria – seppur accelerata dopo la diffusione dei virus – resta decisamente ancora in salita. Ne è convito il professor Vincenzo Fortunato (nella foto), professore associato (PhD) in Sociologia dei processi economici e del lavoro al dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Unical nonché presidente dei Corsi di Studio in Scienze dell’amministrazione e Scienze delle Pubbliche amministrazioni.
Professore, la pandemia ha trasformato il mondo del lavoro anche in Calabria. In che misura?
«La nostra regione, sia pure in tempi e forme differenti rispetto a contesti economici più forti ha risentito e risente di trasformazioni già prima della crisi derivante dalla pandemia. L’impatto sull’economia regionale e sul mercato del lavoro a seguito dell’emergenza sanitaria è stato rilevante in termini di Pil, di occupazione e di consumi delle famiglie che sostengono la domanda interna. Un circolo vizioso che ha di fatto azzerato la già debole crescita della regione, già fanalino di coda in molte delle statistiche socio-economiche nazionali. La nostra è un’economia “debole”, strutturalmente fragile nella sua articolazione interna. A ciò si deve aggiungere che gran parte delle imprese sono di micro e piccola dimensione. Dato questo scenario, nei sei mesi trascorsi circa un terzo delle imprese ha ridotto il personale e circa 2/3 hanno fatto ricorso agli ammortizzatori sociali in deroga. E sono dati in evoluzione, destinati a crescere con il perdurare della crisi. Le imprese più colpite sono sicuramente quelle del settore terziario, soprattutto del commercio, del turismo, dei servizi, ma anche dell’agro-alimentare che, insieme, costituiscono il fulcro dell’economia regionale. Nel settore pubblico, invece, l’impatto della pandemia è stato mitigato dal massiccio e tempestivo ricorso allo smart-working, anche in questo caso con percentuali di utilizzo differenti tra le regioni. In generale, non emergono differenze sostanziali tra macro aree, ma un quadro eterogeneo probabilmente legato alla più alta concentrazione di enti e istituzioni in alcune regioni, oltre che una maggiore propensione culturale verso tale modalità organizzativa».
Quali effetti ha avuto lo smart-working nella dinamica del tessuto produttivo calabrese?
«In generale, l’impatto sul tessuto produttivo è in linea con altre regioni del Centro e del Nord, soprattutto nel settore pubblico. Per quanto riguarda, invece, il settore privato, si registra una buona diffusione nel settore dei servizi (soprattutto nel terziario avanzato e nelle realtà di medie dimensioni), mentre è scarso o nullo l’utilizzo in altri ambiti e nel manifatturiero. I motivi sono sostanzialmente riconducibili alle caratteristiche del sistema produttivo locale, alle dimensioni delle imprese (micro e piccole imprese sotto i 10 addetti), alla natura familiare delle realtà aziendali. Tutti elementi che mal si conciliano con l’utilizzo di questa “nuova” forma di organizzazione del lavoro. Un gap, quello dell’utilizzo dello smart working tra le grandi aziende e PMI, che si riscontra anche a livello internazionale».
Anche in Italia si è assistito ad un fenomeno nuovo: South working, un ritorno nelle aree di origine di molti talenti o alla scelta di lavorare nelle zone con migliori condizioni climatiche. La Calabria ne ha beneficiato?
«Quello del South-working, o smart-working visto dal Sud, è, a mio avviso, un fenomeno interessate, ma è ancora troppo presto per poterne valutare l’effetto in termini di ricadute occupazionali per le realtà del Mezzogiorno (e la Calabria), oltre che sociali in senso più ampio. Ci sono ancora poche esperienze in corso e il loro esito appare incerto. Molto spesso si guarda agli Stati Uniti, laddove queste tendenza si originano prima di diffondersi a macchia d’olio nel vecchio continente, ma l’esperienza ci ha insegnato che la storia e soprattutto la geografia contano, per cui non è affatto scontato che quanto sembra si stia delineando in quel contesto possa diffondersi con la stessa velocità e intensità anche da noi».
Quali ricadute avrebbe sull’economia complessiva della Calabria lo sviluppo diffuso del fenomeno?
«Uno dei potenziali vantaggi spesso citati è la possibilità di “ripopolare” le aree del Sud tradizionalmente soggette a fenomeni migratori. Le stime disponibili dimostrano che dall’inizio del nuovo secolo hanno lasciato il Mezzogiorno oltre due milioni di residenti, la metà dei quali sono giovani di età compresa tra i 15 e i 34 anni, quasi un quinto laureati; il 16% circa si sono trasferiti all’estero. Oltre 850mila di loro non tornano più nel Mezzogiorno. La Svimez ha rilevato come la “nuova migrazione” sia sostanzialmente riconducibile ai profondi cambiamenti intervenuti nella società meridionale, un’area che sta invecchiando e che non si dimostra in grado di trattenere la sua componente più giovane (appartenente alle fasce di età 25-29 e 30-34 anni), sia quella con un elevato grado di istruzione e formazione, sia coloro che hanno orientato la formazione verso le arti e i mestieri. A mio avviso, difficilmente ci sarà un cambiamento strutturale e una netta inversione di tendenza nella nostra società. Le variabili in gioco sono tante, complesse e riguardano i profondi divari non solo economici, ma anche civili e sociali (qualità dei servizi pubblici, sanità, istruzione, trasporti, opportunità di accesso al mercato del lavoro qualificato, rendimento delle istituzioni) che rendono significativamente più attraenti le regioni e le città del Centro e del Nord. Non escludo però che ci siano esperienze interessanti che potrebbero, nel lungo periodo, innescare un cambiamento ed un effetto di trascinamento, per ora difficilmente immaginabile. Le ricadute, potrebbero essere anche importanti, comunque non a breve termine, e solo se incentivate».
Lei parlava di difficoltà di sviluppo del fenomeno in tempi brevi. Eppure qualcosa di rapido è avvenuto per effetto dell’emergenza Covid?
«Sì, ma occorre ben interpretare quanto accaduto. Se pensiamo, ad esempio, alla sperimentazione dello smart working, la sua diffusione è stata si tempestiva, ma spesso ha rappresentato un adempimento normativo senza prestare attenzione alle modalità di implementazione, senza alcun coinvolgimento dei soggetti interessati e ridefinizione dei tempi e degli spazi di lavoro. A differenza di quanto avvenuto in questi mesi, in cui l’improvvisazione e la necessità di agire rapidamente hanno, di fatto, semplicemente trasferito prassi e pratiche di lavoro consolidate in un ambiente differente (quello domestico). Intraprendere un percorso di smart working richiede, invece, un radicale cambio di direzione e paradigma organizzativo. Ciò implica il passaggio dal concetto di lavoratore dipendente a quello di smart-worker, senza penalizzare l’aspetto della sicurezza e della formazione. Questo implica un cambiamento anche all’interno della gestione delle risorse umane che modificano le strategie di reclutamento, ma anche di ricompensa all’interno dell’organizzazione, privilegiando una cultura della delega e del raggiungimento del risultato. La trappola del risultato, tuttavia, senza un’adeguata organizzazione a monte, potrebbe scadere nel trasferimento di rischi e pressioni da parte del datore di lavoro sul lavoratore, con importanti conseguenze sulle condizioni lavorative, sull’intensificazione dei ritmi e più in generale sul benessere del lavoratore. Mentre questi passaggi sono più facili da attuarsi in grandi aziende, con organigrammi definiti, nelle piccole imprese flessibili, che caratterizzano il “modello italiano” e ancora più quello calabrese il passaggio è più difficile da compiersi e potrebbe non portare agli stessi risultati. Lo smart working, infatti, impatta su molti aspetti a livello organizzativo, quali la conciliazione della vita privata e lavorativa, la motivazione e la soddisfazione del lavoratore, il livello di responsabilità e autonomia degli attori coinvolti nell’organizzazione al raggiungimento degli obiettivi, la fiducia e il coordinamento nei rapporti tra management e collaboratori, il livello di assenteismo, il livello di efficacia nella gestione delle emergenze, la produttività e la qualità del servizio offerto. Anche la questione della responsabilizzazione degli attori può diventare un rischio organizzativo, in quanto il lavoratore potrebbe dilatare il tempo di lavoro ben oltre quello richiesto per poter assolvere i compiti e la gestione complessiva del lavoro».
Dunque c’è necessità di un cambio della cultura del lavoro?
«Sì, il primo passo è sicuramente quello di intraprendere un percorso che inneschi un profondo cambiamento culturale nelle organizzazioni e che richieda un’evoluzione dei modelli organizzativi, attraverso nuovi stili di leadership e approcci strategici nella gestione delle risorse umane che puntano sull’integrazione e la collaborazione, dove naturalmente le nuove tecnologie e le high skills giocano un ruolo determinante. In quest’ottica ci potranno quindi essere organizzazioni che, per convenienze economiche (contenimento dei costi del lavoro) o strategie aziendali, sono interessate a nuove formule organizzative de-spazializzate alle quali, però, potranno corrispondere formule contrattuali più o meno flessibili che legano i lavoratori all’azienda. Ancora una volta conteranno le dimensioni (imprese medio-grandi) e il settore aziendale (ICT e terziario innovativo), ma anche la lungimiranza delle leadership che sapranno guardare oltre e anticipare i cambiamenti in atto all’interno di uno scenario sempre più globalizzato e competitivo. Se le pubbliche amministrazioni appaiono tendenzialmente refrattarie al cambiamento e all’innovazione, anche le imprese (soprattutto se di piccole e piccolissime dimensioni) preferiscono tendenzialmente il lavoro in presenza, il controllo diretto e uno stile di leadership tradizionale».
Ma secondo lei ci sono le condizioni affinché una forma di migrazione di ritorno tra giovani abbia effettivamente corso?
«Non parlerei di migrazione di ritorno in senso stretto. Sicuramente, però, si possono creare condizioni favorevoli a mitigare l’effetto dei flussi in uscita, soprattutto dei giovani con un livello di istruzione superiore. Questo richiede un protagonismo importante di tutti gli attori coinvolti (Istituzioni, élites economiche e politiche, Università) affinché si creino quelle condizioni di base essenziali a promuovere lo sviluppo economico e sociale dei nostri territori. Per rientrare o restare c’è bisogno di opportunità lavorative tali da valorizzare gli studi intrapresi, di spazi adeguati, di servizi e trasporti di qualità, di una buona governance e capacità amministrativa e, ovviamente, di buone politiche a livello nazionale e locale».
Cosa manca perché questo fenomeno da estemporaneo si trasformi in qualcosa di sistemico?
«La risposta si ricollega a quanto detto prima, sostanzialmente il passaggio da una “governance dell’emergenza”, che per anni ha rappresentato il modus operandi nella nostra regione, e in gran parte del Mezzogiorno, ad una sapiente programmazione delle politiche e degli interventi in tutti i settori, dall’economia al mercato del lavoro, dall’istruzione ai servizi essenziali, alla creazione delle condizioni che possono accrescere la competitività delle nostre imprese».
Quali misure potrebbero essere adottate dalla Regione per favorirne lo sviluppo?
«Al riguardo, sarebbe decisamente auspicabile la creazione di reti e sinergie tra Istituzioni locali, imprese (e associazioni di rappresentanza) e le Università, i centri di ricerca, secondo un modello definito “a tripla elica” per sostenere e innescare dinamiche di sviluppo basate sull’innovazione, sul progresso tecnico e sul trasferimento delle conoscenze. L’interazione, anche su base locale, con un sistema della ricerca e dell’università di qualità rappresenta, infatti, ovunque nel mondo avanzato un fondamentale fattore competitivo dei territori. Si deve investire, soprattutto nei territori più fragili come la Calabria, nello sviluppo del capitale umano, nell’innovazione, nella costruzione di percorsi formativi adeguati, in linea con le tendenze in atto nei mercati e in grado di garantire personale qualificato e competenze manageriali alle imprese del territorio. Ovviamente, un altro aspetto importante è anche l’infrastrutturazione delle nostre aree e la riduzione del cosiddetto digital divide, cioè il divario che pone il nostro paese (e al suo interno, le regioni meridionali) fra gli ultimi posti a livello europeo per tecnologie e infrastrutture abilitanti, utilizzati dalle imprese e dalla Pubblica amministrazione». (r.desanto@corrierecal.it)
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