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«Il ritorno della sobrietà»
di Nunzio Raimondi
Pubblicato il: 26/12/2020 – 16:12
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Qualche giorno fa discorrevo con un caro amico, che è un esperto di comunicazione, sul tema dei contenuti.
Si sa che noi “ragazzi degli anni ‘60”abbiamo combattuto l’idea monolitica della cultura, intesa come veicolo unico per il miglioramento della società, aborrimmo la società “chiusa” fra quattro mura ed urlammo la nostra voglia di cambiamento verso una società aperta, multiculturale e multietnica.
Ma, a nostro modo, in questo cambiamento, postulavamo un pensiero che non baipassasse i contenuti; certo non avremmo mai pensato ad una comunicazione fine a sé stessa, servente non un’idea od un progetto, ma una visibilità velleitaria, concentrata su chi la diffonde più che su quel che la sostiene.
Insomma, non avremmo mai immaginato il mondo d’oggi, volto alla spasmodica ricerca di una tribuna che valga a farsi conoscere, come se la persona che meglio sa usare il mezzo meritasse maggior consenso e, viceversa, chi ha idee inidonee ad essere veicolate, debba soccombere per mancanza di mezzi.
Una prevalenza del contenitore sul contenuto, che s’addice ad una “società liquida”, incapace di costruire il proprio futuro.
Alcuni eventi della storia recente dell’umanità hanno segnato questa tendenza (non dirò declino) a privilegiare la strumentalizzazione del messaggio, il suo ripiegamento sul modo anziché sul contenuto.
Il digitale, ad esempio, ha aiutato tantissimo nel conquistare popolarità, perché capace di collegare direttamente un target e con nuove persone, che non si sarebbero potute contattare in altro modo. Ma se il fruitore di questo target è privo di materia, per quanto si sforzi di ricercare una tribuna che lo faccia parlare, per quanto si aggrappi ad ogni appiglio pur di apparire, per quando cerchi di mettersi furbescamente dalla parte di quanto può procurargli consenso, sempre un nulla resta.
Suaviter in modo, fortiter in re, dicevano i latini: occorre forza nelle cose, non basta la soavità nel modo.
Anni fa scrissi un pezzo intitolato: ”bentornata povertà”, nel quale dicevo della crisi economica che attanagliava gran parte del pianeta e che ci costringeva a riscoprire la bellezza delle piccole cose.
Oggi,provocatoriamente, penso che la pandemia in corso sia l’antidoto alla brutalità cui ci ha costretto la comunicazione digitale.
Senza scomodare Umberto Eco, dirò che nella crisi epidemica si vedono molto più distintamente cause ed effetti dell’imbecillità corrente nel web e, nel contempo, riacquistano terreno le élite, le competenze, i contenuti.
Sull’onda del successo delle campagne mediatiche di plastica, inaugurate trent’anni fa da uno che cercò il consenso con tecniche di marketing, si torna oggi alla sobrietà della qualità e, conseguentemente, gli scalatori di professione sembrano in affanno.
Infatti, non basta più farsi conoscere ma torna ad essere decisivo farsi apprezzare. E per far questo non basta improvvisarsi mettendosi in mostra, né credersi capaci in forza di un ego megalitico, ma occorre avere le carte in regola (correttezza, compostezza, etica, esperienza, competenza, qualità, serietà) per essere cedibili agli occhi di interlocutori che sono tutt’altro che mammolette inermi o sciocchi da suggestionare con “mezzucci di dozzina”.
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