ROMA «La seconda ondata Covid non è stata una tempesta improvvisa, eppure gli ospedali sono rimasti travolti». Il viaggio di “Presa Diretta”, programma di Rai 3 condotto da Riccardo Iacona, passa attraverso le due regioni che in qualche modo rappresentano, da Nord a Sud, i poli negativi di questa pandemia: Lombardia e Calabria, dove una volta in più viene ribadito come l’emergenza sia conclamata in forma strutturale.
Dal viaggio in Calabria emerge un dato fondamentale: la medicina del territorio non serve solo per contrastare il Covid, ma per tutte le malattie. Senza medicina del territorio ci si ammala di più.
Per dimostrare questo assunto in forma pratica, le telecamere del programma partono da San Giovanni in Fiore, città della Sila dove, grazie alla battaglia portata avanti dall’associazione “Donne e diritti”, è arrivato un camper attrezzato con un mammografo che permette screening tumorali alla mammella. «Una conquista – raccontano – in un paese di montagna dove spostarsi per raggiungere le strutture più vicine è molto difficile». Una sorte condivisa da molte altre zone e borghi interni di quell’area.
LE STORIE Per svolgere l’attività, a San Giovanni è presente Francesco Lanzone, responsabile screening dell’Asp di Cosenza, che spiega come «l’incidenza del tumore al seno al Sud è il doppio rispetto al Nord».
«Anziché avere più diritti, stiamo tornando indietro», rimarca l’associazione. In Calabria solo il 57% delle donne si sottopone a screening preventivo per il tumore alla mammella e il 22% ricorre al privato per fare la mammografia. Dati che riflettono la “maglia nera” della regione in diverse classifiche, compresa anche quella dello screening preventivo per il tumore al collo dell’utero.
È questa la storia di Melito di Porto Salvo, dov’era presente un consultorio per poter effettuare questo tipo di esami. Tuttavia, con l’insorgere della pandemia, tutti e 12 gli operatori attivi nella struttura sono stati spostati e il servizio, sospeso. I residenti e le associazioni protestano perché oltre al diritto negato di accedere agli esami temono che il progressivo ridimensionamento possa portare alla chiusura definitiva della struttura.
Nel 2018, dopo sei anni di insufficienze, la Calabria ha conquistato la sufficienza per quanto attiene il calcolo dei “Livelli essenziali delle prestazioni” con una stima di 162 su un minimo di 160. Tuttavia rimane indietro per quanto attiene l’assistenza domiciliare integrata, lo screening al collo dell’utero, della mammella e del retto colon, che sono poi le patologie tumorali per le quali le percentuali di mortalità sono le più alte in tutto il paese.
Sul piano dell’assistenza domiciliare, toccante è la storia che proviene da Reggio Calabria, dove Maria Teresa Roto, dell’associazione “Diritti dei malati cronici” assiste il padre rimasto invalido dopo una caduta. Da quando c’è il Covid, le cure non sono mai arrivate, con la promessa che il servizio sarebbe ripreso nel 2021. Ma l’anno è iniziato e nulla si è smosso.
I FONDI La sanità pubblica calabrese è commissariata da oltre dieci anni ed è stata sottoposta in questo frattempo ad un rigoroso programma di tagli strutturali. Ciò nonostante, il debito è rimasto insanabile.
Diversi sono stati gli stanziamenti arrivati o quantomeno programmati nel corso degli anni. Va però segnalato che sono 350 milioni gli euro annui quelli che i calabresi spendono per curarsi – perché costretti – fuori regione. Di questi, 70 sono relativi a prestazioni di bassa intensità.
Un cospicuo stanziamento di circa 49 milioni era arrivato dall’Unione Europea all’indomani della chiusura o ridimensionamento delle strutture successiva al piano di rientro del 2010. I fondi servivano per convertire le strutture nelle zone rimaste prive di servizi medici essenziali in Case della Salute. Dei soldi destinati, ad oggi, nemmeno un euro è stato speso. Un esempio è quello di Siderno, dove per la Casa della salute ci sarebbero quasi 10 milioni di euro, ma ad oggi ancora nulla si è mosso. Nel frattempo fuori dai cancelli della struttura ospedaliera pronta e dismessa ancor prima di entrare in funzione, si è costituito un comitato che chiede attenzione verso la situazione sanitaria della città e di tutta la Locride.
Secondo Rubens Curia, portavoce di “Comunità competente”, la mancata trasformazione delle strutture è un fatto grave e oggi «la gente è inferocita perché è stata privata dell’ospedale e la medicina territoriale è desertificata».
Vengono inoltre ricordati i circa 500 milioni stanziati nel 2008 per i tre grandi ospedali dei quali oggi abbiamo appena qualche bozza di progetto. Il Covid è dunque la pioggia che cade sul bagnato ed arriva ad aggravare una situazione della quale si erano avute molte avvisaglie.
È il caso riflesso nelle difficoltà di garantire un “contact tracing” dei contagi in tutta la regione. Per questo sono state attivate le Usca che però in Calabria sono in numero insufficiente e lo stesso personale a disposizione non è in grado di rispondere tempestivamente ai bisogni del territorio. Succede così che a Piscopio, frazione di Vibo Valentia, scoppi quello che in proporzione (con 350 postivi accertati su 2.500 abitanti) è da considerarsi il più grande focolaio Covid d’Italia.
«Queste vicende raccontano di una grande occasione persa, soldi buttati, soldi non spesi e una regione dove buona parte della popolazione vive senza l’accesso alle cure primarie. Una regione dove ogni giorno viene violato l’articolo 32 della Costituzione. Non si può parlare di salute pubblica in assenza di medicina del territorio». (redazione@corrierecal.it)
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