«Da neoliberisti a keynesiani»
A leggere il famoso intervento di Mario Draghi sul Financial Times del 25 marzo 2020, nel pieno della prima ondata pandemica, anche un non esperto di economia rimane spiazzato. Poche decine di righe…

A leggere il famoso intervento di Mario Draghi sul Financial Times del 25 marzo 2020, nel pieno della prima ondata pandemica, anche un non esperto di economia rimane spiazzato. Poche decine di righe chiare, dense, determinate nel raccontare un possente ritorno dell’interventismo degli stati in economia e delle banche centrali sui mercati e nello sdoganare la tanto aborrita crescita del debito pubblico. Proviamo a leggere dal testo di quell’intervento: “E’ già chiaro che la risposta [alla pandemia – n.d.r. -] deve comportare un aumento significativo del debito pubblico. La perdita di reddito subìta dal settore privato […] deve essere alla fine assorbita, in tutto o in parte, nei bilanci del governo. Livelli di debito pubblico molto più elevati diventeranno la caratteristica permanente delle nostre economie […]. E’ compito dello Stato utilizzare il proprio bilancio per proteggere i cittadini e l’economia […]. La priorità non deve essere solo fornire un reddito di base a coloro che perdono il lavoro. In primo luogo, dobbiamo proteggere le persone dalla perdita del lavoro. […] Le banche devono prestare rapidamente fondi a costo zero alle aziende […]. Il capitale di cui hanno bisogno per svolgere questo compito deve essere fornito dal governo sotto forma di garanzie statali su tutti gli scoperti o prestiti aggiuntivi”. Insomma, esattamente il contrario di quanto, in tema di economia, ci è stato ammannito negli ultimi decenni e che è culminato con l’inserimento nella Costituzione italiana del principio del pareggio di bilancio, fatto approvare al Parlamento nel 2012, su pressione dell’UE, dal governo di Mario Monti. Eppure, fra tutti quelli che oggi si spellano le mani per l’incarico a Supermario, la gran parte è, stranamente, di fede neoliberista e di destra (ma ci sono anche tanti sinistri), ossia ha sempre perorato le teorie opposte a quelle contenute nell’intervento di Draghi, che, ricordiamolo, è stato: direttore generale del tesoro (1991/2001), capo del comitato per le privatizzazioni delle società pubbliche italiane (dal 1993), alto dirigente della banca d’affari americana Goldman Sachs (2002/2005), direttore della Banca d’Italia (2005/2011), presidente della Banca Centrale Europea (2011/2019).

Ma vediamo di capire come è avvenuta questa clamorosa inversione di tendenza del pensiero economico contemporaneo, anche perché essa condizionerà inevitabilmente il futuro delle aree più a rischio del vecchio continente, come la Calabria. Dobbiamo partire dal più bistrattato – e forse anche dal più grande – economista moderno, il britannico John Maynard Keynes (1983/1946), le cui teorie economiche – molto simili a quelle indicate nell’intervento di Draghi – consentirono al mondo (semplifico all’estremo) di uscire dalla grande depressione del ’29 (in questo caso le teorizzazioni di Keynes vennero a posteriori, ovviamente) e di rianimarsi dopo la catastrofe della seconda guerra mondiale. Le teorie “keynesiane” rimasero in auge sino a tutto il periodo fra il 1945 ed il 1975, che lo storico Eric Hobsbwam (quello de “Il secolo breve”) chiamò “età dell’oro” ed i francesi “trenta gloriosi”. Questa fase storica finì bruscamente con l’irruzione sulla scena mondiale dei governi conservatori di Margaret Tatcher in Gran Bretagna e di Ronald Regan negli Usa, i quali imposero una brusca svolta neoliberista all’economia mondiale. L’anti-Keynes del nuovo corso fu l’economista statunitense Milton Friedman (1912/2006), fautore del “laisser faire” (lasciar fare) ai privati, del dogma del mercato come supremo regolatore della vita economica (e che, per di più, si autoregola) e fermamente contrario all’interventismo statale. Il neoliberismo ha dominato in economia sino ai giorni nostri. Finché la pandemia non ha fatto irruzione in un mondo già depresso dalla crisi dei “subprime”, dai cambiamenti climatici, dai conflitti etnici, dalle grandi migrazioni e non ultimo dalle “cure” degli economisti neoliberisti. Pandemia che ha colto impreparati i sistemi sanitari nazionali, depotenziati proprio a causa delle politiche di austerità nella spesa pubblica. Ed è qui che s’innesta l’inattesa conversione di tanti neoliberisti al “keynesismo”, di cui l’intervento di Draghi sul Financial Times è l’equivalente di una enciclica papale. Prima di essere linciato dagli agiografi di Draghi, sarò io stesso a ricordare, che per il neopresidente del consiglio si tratta in realtà di un ritorno alle origini, ossia agli anni dell’università, dei suoi studie della sua collaborazione con il prof. Federico Caffè, che fu, per l’appunto, il più importante economista “keynesiano” del nostro Paese. Dunque, cari tifosi neoliberisti che esultate pensando al Draghi delle grandi privatizzazioni (sulla cui utilità pare nutrisse dubbi lui stesso) e dell’esperienza in Goldman Sachs, sappiate che – per nostra fortuna – l’avvento di Draghi non vi consentirà di riproporre la ricetta neoliberista in salsa pandemica. E che, viceversa, per parafrasare un famoso saggio di Benedetto Croce (il titolo era “Perché non possiamo non dirci cristiani”) d’ora in avanti non potremo non dirci keynesiani. Salvo, naturalmente, ulteriori piroette del nostro Supermario e dei suoi colleghi economisti.
*Avvocato e scrittore