Tutti sul carro del “vincitore” per formare la squadra che dovrà “rianimare” l’Italia. Stranamente c’è anche la Lega di Salvini che partecipa all’ammucchiata. Non c’è di che meravigliarsi. Le cronache sono piene di esempi di “deroghe” dal dogma del credo politico pur di condividere il successo e poter dire: “C’ero anch’io!”. Certo, non sapremo mai se e quando la Lega si sia “giustificata” con Fratelli d’Italia e con Giorgia Meloni per avere deciso di salire sul “treno di Draghi” sul quale già avevano preso posto Berlusconi e Renzi. Circostanza che si può solo intuire anche dalle battute iniziali dell’intervento fatto alla Camera da Salvini.
D’altronde il travaglio della Lega per partorire il processo di trasformazione da movimento autonomista a partito politico non è stato né lungo, né difficoltoso. Ce lo ricordano le cronache: Il 21 dicembre 2019 la “mutazione”. Cambiò persino il colore dello sfondo: passando dal verde autonomista della Padania di Bossi, al blu sovranista di Salvini.
La prima tappa importante fu il cosiddetto “federalismo fiscale” alla cui riuscita contribuì anche Silvio Berlusconi che decise di allearsi nelle regioni del Nord e del Sud formando il “Polo del buon governo” al quale parteciparono anche Udc e Alleanza nazionale. La coalizione vinse le elezioni e il Cavaliere, finalmente, formò il suo primo governo.
Passarono diversi anni e i fatti della politica riferiscono del “colpo di fulmine” della Lega per la sinistra. Nel 1995, Caduto Berlusconi, Bossi firmò con D’Alema e Buttiglione il “Patto delle sardine”, un’alleanza che diede vita ad un governo tecnico “pilotato” da Lamberto Dini. Non si sa quanto quell’esperienza sia stata frutto di “amore” e quanto, invece, di “opportunismo”. D’Alema in quel periodo non lesinava commenti e ne riservò uno proprio al rapporto tra la Lega e le forze di sinistra per dire che tra di esse c’era una forte «contiguità» sociale, una «vicinanza compresa sotto un ampio concetto comune».
Nonostante la presunta analogia, l’idillio ebbe breve durata. L’anno successivo Umberto Bossi decise una svolta secessionista che forse aveva già in animo di attuare: dichiarò la «Padania indipendente». Intanto il “Senatur”, rimasto impigliato nella rete dell’inchiesta giudiziaria sul tesoriere della Lega, Francesco Belsito, fu costretto a lasciare la segreteria. Maroni ne prese la guida che mantenne finché non fu eletto presidente della Regione Lombardia e abdicò in favore di Matteo Salvini che, a quel tempo, era consigliere comunale a Milano.
Da quel momento cominciò il processo di trasformazione della Lega da “secessionista” a “sovranista”. I proseliti verso il primo ministro ungherese, Viktor Orban non si contano. Salvini condivise sin da subito le politiche anti accoglienza dei richiedenti asilo e sostenne che Orban fosse un modello da imitare. «Insieme a lui – andava dicendo – cambieremo le regole di questa Europa».
Per fortuna nulla di quanto blaterato è stato poi fatto. Gli italiani non hanno mai concesso alla Lega quella forza elettorale capace di fargli archiviare la democrazia sancita dalla Costituzione e rendere il Paese sovranista come l’Ungheria. Ma è pur sempre un pericolo in agguato. Ecco dove l’Italia rischia di andare a sbattere se la forza della democrazia dovesse indebolirsi fino a lasciare a Salvini spalancata la porta del Paese. Il segretario leghista, nonostante le aperture democratiche fatte con l’adesione al Governo Draghi, rimane pur sempre un politico che ha un’idea dell’Europa uguale a quella di Orban, questi, come è noto, non ammette un progetto di un continente senza frontiere, ma di paesi nei quali ciascuno può fare i suoi affari e perseguire i suoi interessi nazionali.
Adesso Salvini ha la possibilità di fare un salto di qualità e di confrontarsi in un “governo di tutti” nel quale non ha motivo di ripetere che lui non è per le mezze misure e può atteggiarsi a filo europeista. Certo non sarà facile per un leader di un partito che in Europa detiene la presidenza del gruppo “Identità e democrazia”, formato da un miscuglio di nazionalisti, sovranisti ed euroscettici. Evidentemente per lui è stato più importante “cambiare idea”. Deciso a smussare alcune delle sue posizioni in modo da riuscire a incastrarsi in un esecutivo guidato dall’ex governatore della Bce.
Unica a dimostrare coerenza politica, è giusto ammetterlo, è Giorgia Meloni che, per bocca dell’onorevole Wanda Ferro, ha fatto sapere in Parlamento di non far mancare il sostegno di Fratelli d’Italia al Governo senza dover fare “inciuci”, ma valutando di volta in volta i provvedimenti cui votare a favore.
*giornalista
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