“La grande truffa con i fondi europei”, titolò qualche anno fa il “The New York Times” per sottolineare che, ogni anno, Bruxelles, spende quasi sessanta miliardi di euro, in sussidi all’agricoltura che, in alcuni, o molti casi, vanno a finire a persone non proprio raccomandabili, legate al potere dell’Est Europa. Il business “legale”, e inesplorato, denunciato dal giornale americano, è un fenomeno diffuso anche in Italia, e riguarda, in misura maggiore, la montagna da Nord a Sud. Si tratta di speculazioni, conosciute come “mafia dei pascoli”, che il giornalista veneziano Giannandrea Mencini, impegnato da anni a indagare su ambiente e territorio, racconta nel suo libro “Pascoli di carta”, sottotitolo “le mani sulla montagna” (Kellermann editore, pagine 204, euro 16).
I pascoli di carta, “uniscono” l’intero territorio nazionale, formando un sistema, consolidato e capillare, di frodi che parte dalle Terre alte del nord e arriva giù, passando per la Calabria, fino in Sicilia dove il caso del Parco dei Nebrodi, diventato cronaca, con l’attentato al presidente Giuseppe Antoci – dal quale uscì miracolosamente illeso – è quello più eclatante . Mencini ha iniziato la sua ricerca approfondendo, come spiega, proprio un libro di Antoci e del giornalista Nuccio Anselmo: “La mafia dei pascoli” (Rubbettino editore, pagine 116, euro 13), con prefazione di Gian Antonio Stella. E’ quello, il “timone” che ha guidato il giornalista nel lavoro, enorme, nell’indagine capillare, che gli ha consentito di mappare la montagna del Belpaese aggredita dalle frodi dei fondi europei che rischiano di danneggiare l’agricoltura, anziché avvantaggiarla; al punto di mettere a rischio, grave, l’ambiente.
Come dimostra Mencini nel libro “l’imbroglio” dei “pascoli di carta”, succhiando illegalmente fondi europei, è esteso da Nord a Sud e da Est a Ovest, sulle Alpi, come sugli Appennini, e sui monti del Meridione. Ma come funziona il business dei pascoli di carta? Il meccanismo è simile, dal Nord al Sud, a dimostrazione che l’illegalità, diffusissima, al Sud si chiama mafia e al Nord si può chiamare Giacomo, Pasquale, o Michele, ma sempre mafia è. Facciamo l’esempio di Bardonecchia, uno dei tanti, del libro di Mencini. Gli allevatori prendevano in affitto centinaia di alpeggi di alta quota per aumentare virtualmente la superficie agricola utilizzata dalle proprie aziende zootecniche, e riscuotere i premi comunitari. In realtà dichiaravano, falsamente, di aver allevato bestiame, ma lo scopo era incassare importanti contributi comunitari. Erano pascoli senza animali al pascolo. La stessa cosa avveniva in Sicilia, con l’affitto di ettari di terreno, nel Parco dei Nebrodi, destinati al pascolo, ma solo sui documenti, per incassare i contributi dell’Unione Europea. Un meccanismo perverso, fino a quando è arrivato Giuseppe Antoci, che ha spazzato via la mafia dei pascoli, realizzando un protocollo di legalità che poi è diventato legge dello Stato. Ma Antoci è finito nel mirino dei mafiosi, che hanno tentato di ucciderlo. Dove non c’è il coinvolgimento della criminalità mafiosa, in senso stretto – spiega nella prefazione del libro di Mencini don Luigi Ciotti – si ravvisa comunque una diffusa mafiosità dei comportamenti, ossia la tendenza a mettere il profitto davanti a qualsiasi legge, di natura formale o morale, senza riguardo per chi prova a lavorare in modo trasparente.
Dal Veneto, al Piemonte, all’Emilia Romagna, alla Puglia, all’Abbruzzo, alla Calabria, il fenomeno di captazione di risorse pubbliche, è esteso a macchia d’olio su tutto lo stivale italico. Per cambiare servono mani gentili e amorevoli, nella cura della montagna e dei territori, non mani avide, e senza riguardo, di chi, dalla montagna e dai pascoli, vuole trarre solo profitto, dice don Ciotti, suggerendo: “Perché non immaginare cooperative di giovani che, così come coltivano i campi sottratti ai boss, un domani, rendano nuovamente produttivi i pascoli oggi detenuti a fini illeciti”? Finora, la proposta è rimasta inascoltata, ma non è mai troppo tardi.
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