Risalgo lentamente nel bosco di castagni e poi in quello di pini e abeti sui fianchi di Monte Castelluzzo, con sotto gli occhi l’ovale del Golfo di Sant’Eufemia. Vengo da una settimana di angoscia per i roghi che ardono dappertutto, in particolare nel mio amatissimo Aspromonte. Anche vicino a Lamezia abbiamo vissuto giorni drammatici sul versante sud del Monte Mancuso. E perfino nelle campagne e nei querceti attorno a casa mia, sulle colline di Nicastro, il fuoco ha cancellato in poche ore decine di ettari di vegetazione. Mi sono giunte chiamate disperate dagli amici della fascia ionica fra Sant’Andrea, Isca, Badolato, Santa Caterina, Caulonia, da quelli di Longobucco, da quelli di Acri, da quelli di Petilia Policastro, da quelli di Morano. E da quelli dell’Aspromonte, naturalmente.
Salgo e mi convinco che oggi, qui da noi, c’è una tregua. Cerco con lo sguardo il cielo azzurro. Anelo alla dolce limpidezza dell’estate in Calabria. Ieri stavo per essere linciato da due signore alle quali mi ero permesso di ricordare che il fuoco che avevano acceso per bruciare le sterpaglie della loro campagna, oltre che vietato era anche molto pericoloso. Solo chi ha consuetudine vera con la vita nelle campagne e sulle montagne, con le macchie intricate, il caldo, il vento, il fuoco, sa che in certe condizioni bruciare potature, sfalci, stoppie può produrre un inferno. Un’altra signora, alla quale, un paio d’anni fa, rivolsi lo stesso avvertimento, si giustificò dicendo che lei è emigrata in alta Italia e che solo quando torna ad agosto può fare pulizia sul suo terreno.
Salgo per sfuggire al nero e alla cenere della macchia sotto casa mia, e per godere, invece, del verde smeraldo delle foglie degli alberi vivi. Salgo per togliermi dalle narici il puzzo di bruciato, l’aria piena di cenere che ho respirato negli ultimi giorni. Penetro nella Faggeta di Condrò, per ritrovare il silenzio dopo gli strepiti, il traffico, la follia vitalistica che ho visto in città e sulle spiagge. Quasi tutti festeggiano, con acquisti, tuffi e divertimenti vari. Pochi sono in lutto, come i tanti amici che ho sentito, come me. Rientro a casa per ora di pranzo. Mentre ascolto i tg in cerca di notizie dettagliate dall’Aspromonte, che non arrivano (eppure ci sono stati dei morti!), vedo alzarsi sulla collina di fronte, oltre la Valle del Piazza, una colonna di fumo da una campagna circondata da case sparse. Prendo il binocolo ed osservo gente intenta a spegnere un fuoco, di quelli che “ci sono io a sorvegliare: non può succedere niente”. Chiamo il 115. Filmo col telefonino e posto sui social per far vedere quanto sia pericoloso giocare col fuoco d’estate in Calabria. Soprattutto se si è persa la consuetudine con le pratiche agricole: perché siamo ormai tutti contadini improvvisati. Soprattutto se si è persa la frequentazione stabile della montagna: perché le aree interne sono state svuotate dall’emigrazione e dall’abbandono delle antiche attività agro-silvo-colturali.
Quella che sta iniziando sarà una settimana di tregenda. Bisognerà spegnere i roghi in Aspromonte per evitare che tocchino le foreste d’altura, quelle che ci vantiamo di aver reso patrimonio dell’Umanità, ma che, contraddittoriamente, non abbiamo ancora fatto divenire patrimonio delle nostre comunità, di tutti noi calabresi. Bisognerà spegnere gli altri incendi che stanno devastando la Calabria. Ed evitare che ne vengano appiccati altri. Il tutto con un meteo proibitivo: nei prossimi giorni sono previste temperature elevatissime e vento, quel vento che i piromani (perché ci sono anche quelli, ovviamente) amano così tanto. Occorrerà raccomandare a tutti di non giocare col fuoco, dal Pollino all’Aspromonte, di non credere di saper dominare il fuoco: i divieti ci sono, e anche le sanzioni. Ma chi deve dirlo? Chi deve sorvegliare? Chi deve sanzionare? Il groviglio delle (in)competenze che il legislatore è riuscito a creare – fra abolizione del Corpo Forestale, blocco delle assunzioni nella forestazione, passaggio delle competenze in materia di incendi boschivi ai Vigili del Fuoco – è inestricabile.
Non è il momento di addossare colpe a nessuno: siamo responsabili tutti. Perché bastano un paio d’anni di tregua dagli incendi boschivi, per farci dimenticare questo flagello ciclico. Che arriva inatteso, come per risvegliarci, come per ricordarci che la Calabria è una regione bella ma pericolosa, che ha la sua luce e pure la sua ombra. Il fuoco è una metafora di questa condizione ambivalente. Non è un caso che il luogo verso cui il fuoco dell’Aspromonte si sta dirigendo in queste ore si chiami Valle Infernale. I toponimi non venivano dati a caso! E l’Aspromonte – che riunisce in sé tutti i contrasti della nostra terra – è pieno di toponimi ambigui: Rocce degli Smaleditti, Rocce dell’Agonia, Valle Infernale e poi, d’improvviso, Croce di Dio Sia Lodato. Il “popolo dei boschi”, come lo chiama Gioacchino Criaco, sapeva bene tutto questo, conosceva il potere terribile del fuoco: da un lato, strumento che il titano Prometeo dona agli uomini perché possano somigliare agli dei; dall’altro, mezzo di distruzione, di sopraffazione dell’uomo sulle altre creature, sulla terra.
Mi giungono messaggi, link, statistiche, articoli da tanti amici. Altri ne leggo sul web. In molti di essi si analizzano le cause possibili. Mi colpisce un articolo uscito sull’Espresso nel 2013, dove si fa la conta dei milioni di euro che lo Stato elargisce alle società che gestiscono i mezzi aerei per lo spegnimento, dove si accenna ad un business delle centrali a biomasse, dove si denuncia la situazione in cui versa Calabria Verde, l’ente sub regionale che gestisce il demanio boschivo calabrese, dove si paventano gli interessi della ‘ndrangheta. È in questi meandri che il giornalista vorrebbe trovare il bandolo della matassa. È probabile che le cause siano anche queste. Ma a me pare strano che in questi anni le DDA di Reggio e Catanzaro o le altre procure della repubblica non siano riuscite a scovare un’intercettazione, un passaggio di denaro per incastrare qualcuno. Mi sembra di leggere in questo sensazionalismo tipico dei grandi giornali (quelli che mandano i loro inviati per qualche giorno a raccontare luoghi che non conoscono) l’ennesimo tentativo di trovare capri espiatori e di spostare lo sguardo dalla realtà, certamente più banale (e quindi mediaticamente meno appetibile), che è quella che ho descritto: l’abbandono delle montagne, lo spopolamento, la perdita dei saperi legati alle pratiche agro-silvo-pastorali; la mancanza di popolazioni stabili e dotate di adeguati servizi (strade, scuole, strutture sanitarie) che siano presidio del territorio; l’ingloriosa liquidazione della storica esperienza della forestazione. Che, per carità, non può essere riproposta con l’assistenzialismo e i numeri di quella di un tempo, ma che se reinventata in una chiave moderna e attenta, potrebbe porre argine al fenomeno e, soprattutto, rendere il territorio più capillarmente (ri)conosciuto e sorvegliato.
È sera. Le cicale friniscono incessantemente nel bosco attorno casa. Loro non si stancano mai. Qualunque cosa accada. Sanno che può giungere qualunque flagello, ma che il compito di tutte le creature è quello di risollevarsi sempre. In Calabria ci siamo abituati: inondazioni, terremoti, frane, epidemie, malavita, governi che sgovernano. Se tutto questo è vero, passata l’emergenza, dovremo rimboccarci le maniche – tutti noi che abbiamo a cuore la nostra terra – ed utilizzare la crisi per una sorta di palingenesi. Ecco, la nostra terra ha bisogno esattamente di una rigenerazione, prima di tutto morale, che parta dal basso, dalla gente comune. E che sappia perfino far tesoro del fuoco. Perché, diceva Friedrich Hölderlin, «solo lì dov’è il pericolo c’è anche la via per la salvezza».
*Avvocato e scrittore
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