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«Segrebondi e Saraceno: due visioni a confronto nella storia politica ed economica italiana»

«Gentile direttore, Ho letto con interesse l’articolo di Laura Spitalieti, esponente di Popolari in rete, sul Corriere della Calabria che apre la strada (si spera) ad un confronto dialettico sulla st…

Pubblicato il: 14/08/2021 – 14:24
di Orlandino Greco*
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«Segrebondi e Saraceno: due visioni a confronto nella storia politica ed economica italiana»

«Gentile direttore,
Ho letto con interesse l’articolo di Laura Spitalieti, esponente di Popolari in rete, sul Corriere della Calabria che apre la strada (si spera) ad un confronto dialettico sulla storia vecchia e nuova del Meridionalismo. Sono consapevole dell’importanza che assume la memoria storica al fine di ricordare l’impegno di coloro i quali si sono battuti per la causa del Mezzogiorno, e tra questi vi è sicuramente la figura di Giorgio Ceriani Sebregondi. Tuttavia, le chiavi di lettura della storia sono altrettanto importanti. Dunque ho condiviso meno l’impostazione che ispira la riflessione della Spitalieti in quanto credo fortemente che l’imprinting culturale e politico di Pasquale Saraceno rappresenti l’esempio più fulgido di meridionalismo attivo e costruttivo.
Ciò che ormai è evidente ai più, è che manca una visione riformista di meridionalismo. Una visione che, ripartendo dalle radici del nuovo meridionalismo, ponga al centro del dibattito pubblico il rilancio del Paese attraverso la spinta propulsiva di un Mezzogiorno che finalmente contribuisca ai processi produttivi del resto d’Italia e d’Europa. Il nuovo meridionalismo, rispetto al meridionalismo classico, si sostanziava nella ricerca di un modello operativo di sviluppo tale da concorrere all’unificazione economica e sociale italiana. Nel Meridionalismo classico erano identificabili sostanzialmente due posizioni:
1) La prima posizione era quella che teorizzava il superamento del dualismo tra Nord e Sud attraverso gli effetti regolatori del mercato e l’ausilio dell’ordinaria azione statale.
2) La seconda posizione era del tutto radicale. Il punto di partenza della riflessione era incentrato sull’avvio di una fase di cambiamento totale e rivoluzionario degli equilibri politici esistenti e delle regole costituenti lo Stato, al fine di sovvertire modi e tempi della questione meridionale fino ad allora conosciuti.
A prevalere fu l’impostazione data dal nuovo meridionalismo, chiaramente improntata nel solco di un intervento straordinario. Dunque, fu il superamento dell’una e dell’altra delle due concezioni che, come detto sopra, si risolvevano in posizioni di sostanziale attesa, in quanto l’una si affidava agli effetti regolatori del mercato e l’altra ad un cambiamento rivoluzionario. Ad una linea attendista, si sostanziò una politica intesa all’impiego di strumenti di governo che la nuova situazione culturale del dopoguerra aveva reso disponibili.
Pasquale Saraceno, oltre ad essere il vero fondatore morale e materiale dello SVIMEZ, incarna appunto quello spirito riformista e futurista del fare, dal quale noi tutti avremmo bisogno di attingere culturalmente per l’elaborazione di nuovi orizzonti e prospettive che rilancino concretamente il Mezzogiorno. Un nuovo meridionalismo che cammini sul sentiero tracciato da un luminare, difensore vero del Sud e dell’unità del Paese.
Saraceno non negava la validità dell’economia di mercato, ma riteneva che questa non fosse capace da sola di correggere gli squilibri socio economici sorti in seguito al passaggio da un’economia semi-autarchica a una di mercato. Per questo era necessaria dapprima realizzare le condizioni di contesto e poi la creazione di aziende pubbliche di produzione che sostituissero o integrassero l’iniziativa privata. Nel 1948, dai vertici dell’IRI, Saraceno redasse per il Comitato interministeriale per la ricostruzione, gli studi economici per la realizzazione del Piano Marshall, i quali si tradussero, nell’Italia governata da Alcide De Gasperi, in coraggiose politiche pubbliche che misero al centro dell’azione governativa lo sviluppo del Mezzogiorno e consolidarono il ruolo dell’IRI. Giova ricordare che lo stesso Saraceno fu tra i più fervidi sostenitori dell’istituzione della Cassa per il Mezzogiorno, la quale, assieme agli aiuti del Piano Marshall, rappresentò la leva per un nuovo lungo ciclo di investimenti che fu decisivo per il miracolo economico italiano dal Nord al Sud, nel segno della stabilità monetaria ed economica.
Quando, nell’agosto del 1962, fu istituita la Commissione nazionale per la programmazione economica, presieduta dall’allora ministro del Bilancio La Malfa, della quale Saraceno fu vicepresidente, sembrava l’alba di una nuova era: la tanto auspicata unificazione economica nazionale era alle porte, il volto dell’Italia era già profondamente cambiato e il ritmo di crescita del reddito in tutte le regioni era stato persino superiore alle iniziali previsioni del Piano Vanoni. Il resto è storia dei giorni nostri, con la polemica aperta tra Saraceno e la Democrazia Cristiana per la mancata programmazione degli investimenti al Sud, non curanti perfino delle vocazioni territoriali.
Questa straordinaria parabola, caratterizzata da una forte influenza sulle politiche di intervento nel Mezzogiorno e da lungimirante consapevolezza, colloca Saraceno nell’olimpo di una lunga tradizione ideale che va al di là del pensiero meridionalistico classico e del dibattito sul Mezzogiorno che ebbe luogo nel secondo dopoguerra. Questa tradizione in cui si collocava Saraceno, nel solco tracciato da Benedetto Croce, la tradizione che concepiva il problema dell’unificazione economica del Paese come una questione etico-politica, è quella che lega il pensiero dei filosofi e dei riformatori napoletani del Settecento al Risorgimento italiano e arriva fino alla fondazione della Repubblica. Quel filone di pensiero che volge verso una concezione del primato dell’etica nell’economia, del pubblico sul privato, dell’interesse generale e del bene comune sugli interessi particolari e dunque, quella che si fonda sulla separazione tra amministrazione e potere politico. L’intervento straordinario, affermava Saraceno, poiché deve affrontare problemi che sono solamente del Mezzogiorno, non sembra che “possa collocarsi nel quadro di un ordinamento uniforme per tutto il Paese: la diversità dei modelli di sviluppo postula la diversità degli ordinamenti”. Quindi “l’intervento straordinario è necessario fin quando l’economia italiana risulterà composta di due sistemi, caratterizzati da modelli di sviluppo diversi; ignorare e negare questo persistente dualismo significa conformare l’azione pubblica esclusivamente al modello del sub-sistema più forte, consumando così una sostanziale sopraffazione degli interessi del sub-sistema più debole”. Saraceno è stato un grande statista e un grande patriota, ma si badi bene, uno statista e un patriota che amava davvero l’Italia, tant’è che i suoi ragionamenti non erano riconducibili ad una fredda visione tecnocratica dei problemi, alla quale siamo ormai abituati ad assistere nei giorni nostri, bensì ad una congiuntura di tecnica economica, storia e visione umanistica della società, dell’economia e dei problemi che le contrassegnano. Nella sua visione il mercato resta un’oggettività innegabile, ma per il Mezzogiorno esso non è sufficiente: è necessaria l’azione dello Stato, che non è solo la disponibilità di fondi aggiuntivi e l’adozione di procedure più agili di quelle dell’amministrazione ordinaria, ma è “l’idea di governare secondo un programma”. Nel quadro di una sempre più prepotente politicizzazione delle gestioni, indotta dal fatto che al “conflitto tra diversi progetti di società” si va sostituendo la “mera concorrenza” per accaparrarsi risorse pubbliche, con la conseguenza che la progettazione non è più “volta esclusivamente al perseguimento di finalità di reale interesse pubblico”, Saraceno rivendicava l’autonomia delle tecniche economiche nella sfera che è di loro competenza. Saraceno, che da sempre fu convinto sostenitore della necessità dell’intervento straordinario, vide che col passare degli anni esso diventò preda di famelici appetiti corporativi e fonte esso stesso di clientelismo e corruttela, dunque cercò di far capire che il vero problema fosse nell’uso che di questo strumento veniva fatto. Quando denunciava “procedure e strumenti derogatori o l’uso distorto delle risorse”, Saraceno si riferiva a quelle cattedrali nel deserto consapevolmente destinate all’oblio e che costarono al pubblico erario somme che avrebbero potuto salvare l’infanzia di interi paesi sottosviluppati, pensava a tutte quelle risorse impegnate in faraonici megaprogetti, pensava alle grandi dighe inutili, ai giganteschi ed inefficienti impianti di depurazione, alle rovinose cementificazioni di argini, agli infiniti lavori pubblici i cui progetti non furono mai valutati a dovere e spesso anche non approvati formalmente ma eseguiti con la più cinica devastazione dell’ambiente e con spreco immenso di risorse pubbliche.
Focalizzare la concezione che Saraceno aveva del blocco sociale che soffocava già allora lo sviluppo civile del Mezzogiorno, significa comprendere le ragioni profonde che caratterizzavano il suo concetto di meridionalismo rispetto sia da quello di Gaetano Salvemini sia da quello di Antonio Gramsci: Il blocco sociale regressivo non era più, per Saraceno, quello industriale-agrario, al quale si sarebbero dovuti opporre i contadini meridionali o l’alleanza tra contadini del Sud e proletariato industriale del Nord, bensì era il coacervo di forze di varia estrazione sociale, espanso come un cancro alimentatosi di spesa pubblica. Dunque è così che nel Mezzogiorno veniva e viene impedita ogni possibilità di vita democratica e soffocato il respiro e l’affermazione dello Stato moderno, con intere popolazioni costrette a vivere nella cultura del degrado, in una realtà urbanistica che è l’immagine palpabile della cultura del “blocco sociale” e del trionfo della pratica mafiose: strutture fatiscenti, condizioni di disperata precarietà, disastri ambientali e illogici agglomerati urbani ed intere generazioni costrette ad emigrare per cercare fortuna altrove. Le ferite oggi inflitte da una globalizzazione sregolata, cannibale e da un ceto politico fragile nelle idee e subalterno ai processi finanziari nell’azione di governo, ci consegnano un Paese, a maggior ragione dalle nostre latitudini, economicamente alle soglie di un nuovo post-guerra. Ed è per tale motivo che occorrerebbe una velocità risolutiva adeguata nella risoluzione dei problemi. Oggi più che mai si avverte la necessità di uomini del fare ma del fare nell’interesse generale. Si avverte la necessità di porre un freno alla pletora di tecnocrati e funzionari locali che stoppano sempre sul nascere ogni tentativo che lo Stato provi a mettere in piedi per svolgere, appunto, la funzione di Stato: immettere liquidità nelle tasche di cittadini e imprese che hanno perduto salari e ricavi non sempre per colpa loro. Con l’attuale apparato statale e senza una rapida riforma di esso, dai più ormai reincarnato nella quadrupede figura del pachiderma, la nostra economia rischia il collasso e l’incapacità di solvibilità economica verso i propri creditori ma non per l’imponente debito pubblico nel quale è impantanata da anni, bensì per la mancata unificazione economica del Paese e le paralisi amministrative che lo governano. Per queste ragioni urge riformare velocemente i procedimenti amministrativi, la giustizia civile e la digitalizzazione di tutti i processi, affinché lo Stato compia davvero il suo dovere: eroghi contributi a fondo perduto laddove necessario e faciliti gli investimenti pubblici e privati, oggi incastrati in un groviglio di uffici, procedure e lungaggini da snellire.
Ritornare ad una politica per il Mezzogiorno ispirata allo sviluppo e non all’assistenza, alla netta separazione anziché alla confusione tra potere politico e responsabilità gestionale, significherebbe battere il “blocco sociale” e dar vita alla formazione di un nuovo blocco sociale orientato al progresso: questa è la grande eredità morale che lascia a noi tutti e alle nuove generazioni questo grande statista. Per questo motivo, ritengo che discutere oggi di meridionalismo, significa ricordare la figura di Pasquale Saraceno e il suo modello positivo di intervento straordinario per il Mezzogiorno da emulare anche nella gestione del PNRR, occasione unica per superare i divari che rappresentano il vero freno alla crescita del Paese.

*Segretario Federale IdM

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