Il governatore Occhiuto a Bruxelles e i fondi strutturali europei
Il Governatore Occhiuto ha fatto di recente un viaggio a Bruxelles. Viaggio estremamente significativo e importante per almeno due ragioni: da un lato, sul piano simbolico ha voluto sottolineare, al…

Il Governatore Occhiuto ha fatto di recente un viaggio a Bruxelles. Viaggio estremamente significativo e importante per almeno due ragioni: da un lato, sul piano simbolico ha voluto sottolineare, al più alto livello, l’importanza dei fondi strutturali europei nell’ambito della nuova programmazione 2021-2027, che, unitamente alle risorse del Pnrr, offrirà al nostro Paese e alle sue regioni formidabili occasioni di investimento e di sviluppo; dall’altro, sul piano più operativo ha voluto stringere qualche bullone per assicurare, per quanto possibile, che la macchina amministrativa dia buona prova di sé. Niente affatto male l’idea del Governatore, considerato che acceso e vivace è stato ed è il dibattito intorno alla (non sempre efficace) gestione dei fondi strutturali europei. Vi è chi sottolinea che di tali fondi si faccia cattivo uso, quando non vero e proprio sperpero; altri mettono in evidenza la lentezza, la farraginosità, la vischiosità delle procedure di spesa e di rendicontazione; non manca chi alza l’indice proprio nei confronti delle regioni – tra le quali la Calabria – che, presentando un Pil pro capite inferiore al 75% della media dell’Unione europea allargata, sono beneficiarie dell’«Obiettivo convergenza», diretto a realizzare le condizioni che favoriscono l’assorbimento dei divari di sviluppo socio-economico rispetto alle regioni più sviluppate. Si tratta di tesi che hanno tutte più o meno valido fondamento. Tuttavia, almeno a mio avviso, una prospettiva di analisi che si affaccia con buone ragioni nel dibattito sull’andamento della gestione dei fondi strutturali europei nel corso degli ultimi anni è quella orientata ad indagare il punto di ricaduta della spesa, per verificare quale sia l’ampiezza degli effetti derivanti sul piano socio-economico. In altri termini, vi sono spese, ammesse a finanziamento, destinate a produrre investimenti il cui raggio d’azione è limitato, anche (e direi, soprattutto) in termini di indotto. Vi sono spese, viceversa, che su questo piano sono suscettibili di generare investimenti caratterizzati da un raggio d’azione molto ampio. Le prime sono spese che producono sì effetti economici, destinati però a spirare nell’atto stesso in cui si svolgono. Le altre sono, al contrario, spese che producono investimenti i cui effetti permangono nel tempo, e che, nel tempo, sono capaci di generare altre attività suscettibili per di più di prendere forme e direzioni nuove e diverse. È, insomma, un problema di scelta quello che si pone alla classe politico-amministrativa: la scelta è tra la frammentazione dei finanziamenti, che genera mille rivoli senza fare massa critica, e la concentrazione della spesa in grandi o importanti progetti capaci invece di produrre sviluppo socio-economico nel medio-lungo periodo. Si tratta di scelte che, però, richiedono visione strategica e lungimirante, programmazioni fondate su attente analisi scientifiche di fattibilità e di redditività degli interventi e, quindi, di meritevolezza del finanziamento. Finanziamento – rammentiamolo – che è spesa pubblica (è il caso, a questo riguardo, di soggiungere che la politica di coesione è complessivamente finanziata da risorse comunitarie e, insieme, nazionali, rispettivamente provenienti dal bilancio europeo e statale). La fattibilità degli interventi ammissibili a spesa va misurata non solo sul piano della capacità di generare reddito, ma anche sulla base di rigorose analisi prognostiche costi-benefici, perché non necessariamente un progetto in grado di produrre benefici è pure sostenibile in termini di costi (proprio per questo è un’analisi che va fatta ex ante; quando interviene ex post, il più delle volte è costretta a registrare solo i danni provocati: e – vivaddio! – non ci mancano le cattedrali nel deserto).
Logiche di risultato per la gestione dei Fondi strutturali europei
Detto questo, è bene procedere con ordine, ricordando che i Fondi strutturali e di investimento europei, a norma dell’art. 174 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), mirano a rafforzare la coesione economica, sociale e territoriale dei Paesi membri e, in particolare, a ridurre il divario tra i livelli di sviluppo delle varie regioni e il ritardo di quelle meno favorite. Nell’ambito della politica di coesione, diretta a perseguire il processo di integrazione economica europea attraverso la realizzazione di obiettivi di crescita economica, di sviluppo sostenibile, di competitività tra le imprese in funzione della garanzia della concorrenza, di miglioramento del benessere e della qualità della vita, i Fondi strutturali vengono impiegati per conseguire varie finalità e, in particolare, lo sviluppo armonico ed equilibrato nelle diverse regioni dell’Unione europea (Fondo europeo di sviluppo regionale [FESR]) e l’occupazione attraverso la promozione di politiche di investimento nel capitale umano (Fondo sociale europeo [FSE]). Altre risorse vengono invece destinate i) a realizzare progetti nel settore dei trasporti e dell’ambiente in Paesi in cui il reddito nazionale lordo pro capite è inferiore al 90% della media UE (Fondo di coesione [FC]); ii) a rispondere a specifiche esigenze di sviluppo di aree rurali (Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale [FEASR]) o di sostegno della pesca sostenibile e delle comunità costiere (Fondo europeo per gli affari marittimi e la pesca [FEAMP]). Si tratta, com’è ben chiaro, di un insieme di fondi estremamente importante, da utilizzare anche in chiave addizionale rispetto a progetti di investimento nazionali e/o privati. Pur avendo diverse destinazioni, andrebbero riguardati e gestiti secondo regie di intervento coordinate, tenendo conto che l’analisi dei progressi compiuti nell’ambito delle politiche comunitarie di finanziamento deve fondarsi non solo sulla certificazione della spesa e quindi sul grado di utilizzo dei fondi, ma soprattutto su logiche di risultato. E non v’è analisi di risultato che possa prescindere dalla preventiva indicazione di obiettivi ed impegni misurabili e quantificabili in modo oggettivo. Si tratta, in buona sostanza, di forme di condizionalità a cui legare inderogabilmente l’erogazione della spesa ammessa. Altrimenti operando, si finirebbe per ammettere spese – per l’appunto – “a prescindere”, precludendo per di più la strada alla verifica del grado di effettività della politica di coesione in termini di economicità, efficienza, efficacia. L’indicazione di finalità, di impegni e di risultati misurabili e quantificabili in termini oggettivi consente al decisore politico-amministrativo di impostare una programmazione effettivamente orientata a realizzare progetti dotati di intrinseca redditività e capaci, quindi, di innescare meccanismi economici virtuosi. Una programmazione di questo tipo presuppone però un approccio sistematico al governo dei fondi strutturali, che, in primo luogo, impegni i livelli politico-istituzionali (Ministeri e Regioni) nella non facile elaborazione di strategie di intervento focalizzate su progetti non frammentati, ma ispirati a logiche di sviluppo unitario e ben calibrati sul piano della fattibilità tecnico-economica, e, in secondo luogo, costruisca o modelli, in fase discendente, una struttura amministrativo-burocratica capace di rispondere all’esigenza di utilizzare le risorse comunitarie programmate non in funzione redistributiva (quando non clientelare), ma produttiva. Se il quadro complessivo della politica di gestione dei fondi è ben disegnato secondo logiche di intervento sistematiche e chiare (obiettivi, impegni e risultati, misurabili e misurati), sostenute da strutture amministrative adeguate e da professionalità formate alla specifica programmazione, si semplifica lo stesso processo decisionale, con la conseguenza di rendere meno lente, farraginose, vischiose le procedure di spesa e di certificazione. In sostanza, all’interno di linee strategiche ben definite diverrebbe molto più agevole l’attività gestionale lungo tutta la filiera, contrariamente a quanto accade se si è costretti a rincorrere, con inutile o poco fruttuosa spendita di attività amministrativa, micro-progetti nei tanti rivoli di spesa. Il tipo di programmazione di cui andiamo dicendo presuppone, inoltre, la costruzione di un nuovo modello di relazioni tra gli attori multilivello che intervengono nel processo di finanziamento e di spesa. Nuovo perché richiede una forte responsabilizzazione dei soggetti che, nell’ambito degli accordi di partenariato, gestiscono le risorse. È la logica di risultato a responsabilizzare, attraverso il regime delle condizionalità, gli attori coinvolti nelle politiche di finanziamento.
Stringere i bulloni
Insomma, in qualche modo i bulloni si debbono stringere. Se consideriamo che i fondi strutturali, come anticipato, mirano ad assorbire i divari di sviluppo socio-economico rispetto alle regioni più sviluppate, non è che possiamo dirci soddisfatti, specie alle nostre latitudini. Certo, la crisi economico-finanziaria, che dal 2007/08 – passando dalla caduta dei debiti sovrani del 2010/11 e finendo (?) con la pandemia da Covid-19 -, trascina ancora i suoi effetti, ha pesato e continua a pesare di più nelle regioni meno favorite, ma, anche al netto della crisi, il tasso di sviluppo di queste aree – e della nostra in particolare – registra divari gravi in termini assoluti. In una regione come la Calabria, che necessita di grandi e importanti investimenti infrastrutturali (materiali ed immateriali), i fondi europei sono senza dubbio leva di sviluppo, capaci di incidere nell’economia locale se governati non secondo logiche redistributive o di mero trasferimento, ma secondo logiche manageriali di mercato, tenendo conto dei risultati fin qui ottenuti. Non certo lusinghieri, se consideriamo che il Fondo europeo per lo sviluppo regionale (FESR), benché innovato nel 1989, esiste dal 1975: non da poco. Ancora più risalente il Fondo sociale europeo (1957). E non è nemmeno recente il Fondo di coesione (1994). L’analisi diretta ad indagare il punto di ricaduta della spesa in vista di una programmazione strategica e sistematica non può prescindere, a sua volta, da uno studio attento dei limiti e delle risorse che caratterizzano i territori di riferimento (al riguardo, la pianificazione territoriale e urbanistica, se ben condotta, è importante strumento di conoscenza del territorio). Se le risorse territoriali possono essere valorizzate in termini economico-imprenditoriali, anche i limiti possono trasformarsi in risorse quando c’è visione strategica: la montagna è un limite, ma può diventare una risorsa se valorizzata come stazione sciistica. E sono innumerevoli gli esempi in cui anche il limite può diventare risorsa di sviluppo. In definitiva, non hanno lungo respiro finanziamenti che prescindono da visioni organiche di sviluppo e dalle vocazioni territoriali, o, peggio ancora, le spese graziosamente elargite a chi rincorre farfalle sotto l’Arco di Tito.
* Professore di Diritto amministrativo nell’Università Mediterranea di Reggio Calabria