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Rinascita Scott, la sentenza certifica l’attendibilità dei nuovi collaboratori

Le dichiarazioni «senza tema di smentita» di Bartolomeo Arena. I racconti dettagliati e coerenti di Camillò e Cannatà. Loielo e i particolari sulla latitanza di Giuseppe Salvatore Mancuso. Ecco per…

Pubblicato il: 10/05/2022 – 20:15
di Alessia Truzzolillo
Rinascita Scott, la sentenza certifica l’attendibilità dei nuovi collaboratori

LAMEZIA TERME Il giudice che ha emesso la sentenza del troncone con rito abbreviato del processo Rinascita Scott, Claudio Paris, non si è trovato a dover fare i conti soltanto con le condanne da comminare ma anche a certificare, per la prima volta, l’attendibilità di alcuni collaboratori di giustizia. «Si tratta in particolare di Bartolomeo Arena, Giuseppe Camillò, Gaetano Cannatà e Walter Loielo, per i quali è probabilmente lo scrivente il primo a dover certificare nell’ambito di una sentenza la loro attendibilità», scrive il gup.

Bartolomeo Arena

La prima annotazione che fa il giudice riguarda il fatto che Bartolomeo Arena (in foto), elemento apicale della ‘ndrina Pardea-Ranisi, si sia deciso a collaborare «da libero, senza esser destinatario di alcuna misura», fatto che avviene raramente. Oltre a essersi accusato di gravi delitti, ha spiegato di avere deciso di collaborare perché il suo gruppo di appartenenza stava pianificando l’omicidio di Saro Cassarola, al secolo Rosario Pugliese, cosa che avrebbe scatenato, temeva Arena, «una vera e propria guerra di mafia».
Sulla figura di Arena le difese hanno sollevato una particolare circostanza: che Bartolomeo Arena afferma di conoscere bene il collaboratore di giustizia Andrea Mantella, che anzi, più grande ed esperto di lui, gli avrebbe anche elargito consigli criminali (se non addirittura, almeno in una circostanza, una vera e propria lezione di ‘ndrangheta), mentre Mantella afferma di non conoscerlo, o meglio, di avere un ricordo vago di chi fosse. «… lo ricordo così vagamente ma non mi dice niente a livello criminale di avere fatto qualcosa insieme», ha detto Mantella.
Il gup riconosce una certa discrasia tra i ricordi di Arena e quelli di Mantella. Tuttavia afferma che Mantella «individua correttamente il soggetto di cui gli viene chiesto di riferire (un ragazzo di Vibo Valentia, Vartolo, figlio di Arena Antonio, scomparso di lupara bianca, che effettivamente conosceva)». Il fatto che Mantella non abbia ricordi limpidi dei rapporti con Arena, secondo il giudice «è ben possibile, avuto riguardo ad una certa differenza di età e soprattutto al diverso peso criminale tra i due».
Il gup ravvisa diversi elementi che certificano, «senza tema di smentita» l’attendibilità di Bartolomeo Arena.

La visita a Domenico Oppedisano per creare un locale a Vibo autonomo dai Mancuso

Nell’interrogatorio del 18 ottobre 2019 Bartolomeo Arena ha raccontato di avere accompagnato, in una occasione, suo zio Domenico Camillò “Mangano” al cospetto del capo Crimine di tutta la ‘ndrangheta, don Mico Oppedisano, per perorare la nascita di un locale di ‘ndrangheta su Vibo Valentia autonomo dai Mancuso e riconosciuto da Polsi. Questo fatto emerge anche dai carteggi del procedimento Crimine. Arena racconta che «i maggiorenti del mio gruppo (in particolare mio zio Domenico Camillò), con Carmelo Lo Bianco decisero di andare a trovare Domenico Oppedisano a Rosarno. L’unico in grado di realizzare un’operazione del genere era mio zio Domenico Camillò che aveva delle doti di ndrangheta elevate ed era conosciuto e rispettato a Polsi. Domenico Oppedisano ci portò da Rocco Aquino a Gioiosa e con questi raggiungemmo anche il fratello Peppe e mangiammo un gelato in un bar; gli Aquino ci consigliarono di parlarne con Giuseppe Commisso “il mastro”. Ci recammo a parlare con lui presso la lavanderia “Ape Green”, tuttavia non trovammo, perché era dal fratello a colloquio mi pare a Torino. Il tutto fu rimandato. Poi, a seguito degli arresti dell’operazione “Nuova Alba”, saltò la formazione di questo Locale a Vibo Valentia».
Nel 2011 Arena chiese nuovamente allo zio Domenico Camillò di impegnarsi per creare questo locale di ‘ndrangheta ma Camillò «non era convinto e soprattutto, cercando da uomo saggio sempre la pace, non voleva assumere questa iniziativa senza coinvolgere i Lo Bianco». Arena racconta, poi, che il nuovo locale venne formato nel 2012, «Enzo Barba assunse la carica di capo società in quanto il medesimo ha una dote altissima (ritengo superiore al Padrino) in quanto conferitagli già precedentemente alla nuova formazione da mio zio Mimmo Camillò (per come mi raccontò quest’ultimo), nell’occasione in cui il Barba si trovava ai domiciliari a seguito dell’operazione “Nuova Alba”». Il giudice sottolinea come le affermazioni di Bartolomeo Arena siano corroborate dalle foto dell’incontro con Domenico Oppedisano scattate dagli investigatori.

Il rinvenimento dell’arsenale

«A breve i Pardea uccideranno Rosario Pugliese detto “Cassarola”, ad ucciderlo saranno un giovane che proviene dalla Lombardia, Filippo Grillo, unitamente a Marco Ferraro, un ragazzo che abbiamo rimpiazzato nel nostro gruppo. Anche i “Cassarola” a loro volta hanno l’intenzione di eliminare i Pardea. I Pardea detengono le armi a Piscopio, sono murate in un’abitazione di un ragazzo di Vibo Valentia sposato a Piscopio che si chiama Filippo Di Miceli, il quale fa riferimento al nostro gruppo. Lì vi sono murate diverse armi, tra pistole e Kalashnikov, nonché una bomba ad alto potenziale. Di Miceli custodisce tali armi per conto di Antonio Pardea».
Il 18 ottobre 2019, già nel corso del suo primo interrogatorio, Bartolomeo Arena riferisce delle armi custodite dal sodale Filippo Di Miceli, precisando che proprio a costui la ‘ndrina aveva affidato un vero e proprio arsenale, tra cui le armi che sarebbero state a breve utilizzare per uccidere Rosario Pugliese alias “Cassarola”.
Arena riferisce pure che in un via di Vibo Valentia «ci sono delle pistole in una cantina: una calibro 40 e una calibro 7 parabellum con silenziatore. Queste armi sono mie e di Francesco Antonio Pardea. Lì è custodito anche dello stupefacente (400/500 grammi di marijuana) e delle lettere minatorie…. Io dovevo essere uno di quelli che dovevo recuperare i killer dell’omicidio di Pugliese, ma adesso ci siamo un po’ allontanati in quanto abbiamo avuto una discussione per motivi di spartizione di denaro. Ho partecipato a delle riunioni in cui abbiamo discusso dell’omicidio da farsi circa venti giorni fa con Antonio Pardea, Filippo Grillo, Marco Ferraro e Filippo Di Miceli. Adesso si sta attendendo solo che arrivi Grillo dal Nord e si provvederà ad eseguire l’omicidio».
Dichiarazioni importanti che hanno portato a immediati riscontri perché, in effetti, con le perquisizioni gli investigatori hanno immediatamente trovato le armi citate dal collaboratore.
«E raramente – scrive il gup – una chiamata in correità ha ottenuto più formidabile riscontro; e non solo in relazione alla riferita detenzione di armi, ma anche, ancor più straordinariamente, per il reato associativo, venendo rinvenute, altresì, scritte dall’inequivocabile significato ‘ndranghetistico e siccome riportanti le indicazioni della copiata dello “sgarro” ossia i Cavalieri Minofrio, Mismizzo e Misgarro».

Le sobillazioni di Mommo Macrì e la «straordinaria attendibilità» di Arena

«Infine – scrive il gup – Arena è presente a conversazioni (più d’una) in cui il Macrì incita i propri interlocutori a sollevarsi contro le altre cosche o ‘ndrine rivali, finanche ipotizzando l’omicidio di Giuseppe Antonio Accorinti, capo della cosca di Zungri, ovvero Paolino Lo Bianco».
«Ma tu lo sai che squadra abbiamo noi!, che voi non vi mettete in testa che siamo i più forti!», dice Mommo.
«Come si diceva, dunque, – scrive il gup – l’unico elemento introdotto dalle difese per minare l’innegabile attendibilità del collaboratore è straordinariamente soverchiato dalle risultanze che si sono poc’anzi ripercorse, e che dimostrano senza tema di smentita che Bartolomeo Arena era, fino alla data del suo pentimento, un apicale della ‘ndrina Pardea Ranisi; sicché le sue chiamata in correità risultano straordinariamente attendibili (anche perché prive di qualsivoglia intento di calunnia verso i chiamati) e, nella stragrande maggioranza dei casi, riscontrate da (numerosi altri) elementi esterni di carattere individualizzante».

Michele Camillò e Gaetano Cannatà

Michele Camillò e Gaetano Cannatà sono due collaboratori che hanno saltato il fosso dopo il loro arresto nell’operazione Rinascita-Scott. Secondo taluni difensori, i due collaboratori sarebbero inattendibili perché si sarebbero «limitati a riferire farti che avevano potuto apprendere dalla lettura di atti ormai resi pubblici». Ma il gup ritiene che «anche il loro resoconto delle odierne vicende è dettagliato, coerente, reiterato e privo di contraddizioni nel senso poc’anzi precisato, come meglio ancora una volta la più rassicurante conferma alle loro dichiarazioni auto ed eterei’ accusatorie rinviene proprio da acquisizioni (l’attività tecnica in particolare) che li colloca “sulla scena” quali comprimari di molte di tali vicende (si pensi al monitoraggio “in diretta” delle fasi preparatorie dell’agguato alla famiglia Crudo, alle quali partecipa il Camillò; ovvero alle captazioni che censiscono il Cannata mentre riscuote i proventi estorsivi); sicché è apodittico e riduttivo sostenere che costoro l’inattendibilità dei due collaboratori sol perché hanno avviato la collaborazione alcuni mesi dopo la loro cattura».

Walter Loielo e la latitanza di Giuseppe Salvatore Mancuso

Walter Loielo è stato ritenuto attendibile nel momento in cui ha parlato della posizione di Domenico Cracolici. Loielo ha reso delle dichiarazioni che hanno riguardato il suo coinvolgimento nel favoreggiamento della latitanza di Giuseppe Salvatore Mancuso, fratello del collaboratore Emanuele Mancuso e figlio di Pantaleone detto “l’Ingegnere”, tracciando aspetti dell’alleanza della sua famiglia con quella di Giuseppe Salvatore Mancuso e ripercorrendo i luoghi della latitanza, quando Giuseppe Salvatore Mancuso si era sottratto all’esecuzione di una sentenza di condanna per sequestro di persona nell’operazione Grillo Parlante della Procura di Milano e quando si era sottratto alla misura custodiale per il procedimento Mediterraneo, nell’ambito del quale era detenuto per la Procura Distrettuale di Reggio Calabria per delitti di narcotraffico aggravato dalle modalità mafiose. Nel ripercorrere questi luoghi individua anche dei posti che hanno coinvolto esponenti della ‘ndrina Cracolici. «Ebbene – scrive il gup – venendo al merito delle dichiarazioni del Loielo questi, in sintesi, ha riferito di aver prestato ausilio, per un breve periodo, alla latitanza di Giuseppe SalvatoreMancuso, “un soggetto importante della famiglia mafiosa dei Mancuso” (si tratta in particolare del figlio, di Pantaleone Mancuso alias “l’Ingegnere”, padre anche del collaboratore di Giustizia Mancuso Emanuele), pur non conoscendone specificamente ruoli e compiti; e tale ausilio – ha precisato – era stato offerto non sulla base di una pregressa conoscenza e personale, bensì per ragioni strategico criminali, e cioè in cambio dell’appoggio che il Mancuso avrebbe offerto in favore dei Loielo nella guerra che avevano in corso con gli Emanuele: segnatamente, per favorirli si sarebbe finanche prestato ad uccidere un tale Campisi, che nella predetta guerra era dalla parte degli Emanuele». Dunque il giudice considera «pienamente utilizzabile ed estremamente significativo tutto lo spaccato che innegabilmente ed oggettivamente restituisce la deposizione del Loielo in relazione a fatti di certo non appresi de relato, essendone stato anzi spettatore e diretto protagonista; che basta a connotare di assoluta rilevanza ai fini de quibus la descrizione (del tutto attendibile, si è già detto) di un Cracolici che si occupa della latitanza di Giuseppe Salvatore Mancuso, al quale consegna armi proprie, da un lato, perché le pulisca; dall’altro (una carabina) perché si alleni a commettere un omicidio (qualunque ne sia la vittima) che lo stesso collaboratore dice necessario nell’ambito di una faida tra il proprio sodalizio criminale e quello in quel momento avverso; e che con lo stesso Mancuso proprio in quel frangente si occupa di una piantagione funzionale ad un comune traffico di stupefacenti». (a.truzzolillo@corrierecal.it)

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