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Corigliano Rossano ancora senza statuto. Candiano: «Ipotesi di scioglimento del Consiglio comunale»

L’amministrativista ed ex sindaco motiva una via «drastica» a cui si potrebbe giungere. Intanto di mesi ne sono passati 35

Pubblicato il: 11/05/2022 – 7:17
di Luca Latella
Corigliano Rossano ancora senza statuto. Candiano: «Ipotesi di scioglimento del Consiglio comunale»

CORIGLIANO ROSSANO La mancata approvazione dello Statuto comunale – e la città di Corigliano Rossano lo attende ormai da 35 mesi – potrebbe, nella via più «drastica», condurre allo scioglimento del consiglio comunale. Una “bomba” in punto di diritto dimostrata dall’avvocato Nicola Candiano, eminente amministrativista, più volte amministratore e già sindaco di Rossano, nel corso di un convegno organizzato dalla Fondazione Mortati. “Corigliano Rossano, tra unità e decentramento: la questione municipi”. È stato questo il tema dell’incontro a cui hanno partecipato i docenti Walter Nociti, Giampiero Calabrò, il segretario comunale di Cassano allo Ionio, Ciriaco Di Talia, gli avvocati Giuseppe Zumpano, Maurizio Minnicelli e Nicola Candiano, con i saluti iniziali del sindaco, Flavio Stasi.
Il convegno ha concentrato le attenzioni sull’esigenza dello Statuto, non ancora adottato dalla prima amministrazione comunale della città, e l’istituto dei municipi. Ovvero quegli organismi di partecipazione democratica dei cittadini alla gestione della cosa pubblica.
A Corigliano Rossano, i municipi sono previsti dalla legge di istituzione del nuovo comune approvata in Consiglio regionale – ma snobbata dai governanti attuali –. Norma che evidenzia anche come lo statuto si debba ratificare nei primi sei mesi, seppur non in termini perentori ma ordinatori.
Da 35 mesi, invece, i gruppi di maggioranza in consiglio comunale e le opposizioni si stanno scontrando sull’ipotesi di poter “nominare” gli organi rappresentativi dei municipi, i presidenti, o di dotarli di forma elettiva.
Uno dibattuto che si sta consumando ormai da tempo all’interno della commissione consiliare “Statuto”, peraltro riunitasi ieri dopo un anno e alquanto travagliata nella sua gestione. Prima presieduta da Maria Salimbeni, “promossa” da Stasi a vicesindaco in giunta, poi dalla vicepresidente, la consigliera comunale Isabella Monaco, eletta ieri presidente. Nel mezzo la diatriba accennata e l’ambizione di far giungere in Consiglio comunale una bozza “condivisa”, da approvare all’unanimità. L’eventuale convalida “a maggioranza” rappresenterebbe una sconfitta politica su tutta la linea e ad oggi non sembra esserci alcun presupposto minimo perché possa accadere. E forse anche per questo l’amministrazione comunale sta prendendo tempo, nonostante le diffide inviate dal Ministero dell’Interno.
Insomma, tra consiglieri comunali di maggioranza convinti che lo statuto non serva a nulla (se è questa l’aria che tira, i 35 mesi di attesa lo starebbero dimostrando palesemente) e l’ipotesi di scioglimento dell’assise, ce ne passa. L’attesa infinita, il far decantare i problemi, d’altronde, sono strategie spesso adottate dell’amministrazione comunale di Corigliano Rossano.

Candiano: «La persistente mancata approvazione dello statuto può indurre il Prefetto a procedere alla proposta di scioglimento del Consiglio comunale»

«Per i comuni istituiti a seguito di fusione – spiega Nicola Candiano al Corriere della Calabria – è previsto il termine di sei mesi per l’adozione dello Statuto, che non può essere considerato perentorio in assenza di espressa previsione e di sanzione specifica contemplata nella stessa fonte normativa che lo fissa. Ma anche il superamento di un termine ordinatorio, oltre ogni ragionevole tolleranza, non può non avere conseguenze, secondo le norme ed i principi generali dell’Ordinamento. E allora cosa succede in caso di macroscopica violazione del termine di sei mesi, con omissione prolungata per un anno, due o anche più? Qualunque risposta non può non fare riferimento al quadro normativo che disciplina l’intervento dello Stato nei confronti del sistema delle Autonomie, costituito dall’art. 120 Costituzione; dagli artt. 8 e 10 della Legge (di principi) n. 131/2003 (c.d. La Loggia) attuativa della riforma Costituzionale del Titolo V del 2001, ed infine dagli artt. 136 e 141 lett. a) Tuel, tra loro alternativi a seconda della soluzione che viene prescelta».
Secondo Candiano, una prima tesi più «morbida», in applicazione dell’art. 136 del Tuel,  «sostiene l’esercizio del potere sostitutivo statale nella forma della nomina di un commissario ad acta, preceduto dalla diffida a provvedere. Quella norma si lascia apprezzare per l’attaccamento al principio di conservazione degli organi elettivi degli enti. Dall’altra parte, però, la stessa soluzione si manifesta debole in ragione della natura dello Statuto, che non solo è espressione dell’autonomia della comunità, ma ha rango normativo e non meramente amministrativo e perciò insofferente rispetto all’esercizio dei poteri sostitutivi di altra autorità». L’amministrativista non sembra convinto della nomina di un commissario ad acta perché lo Statuto è frutto della «discrezionalità ispirata dalla visione politica».
Alla tesi morbida potrebbe essere associarsi un’altra «più drastica» che «richiama il potere statuale a carattere sanzionatorio e sostiene la possibilità che si pervenga allo scioglimento del Consiglio Comunale ai sensi dell’art. 141 Tuel (già art. 39 L.n.142/1990)». La legge poggia «sul fondamento normativo della lett. a dell’articolo secondo cui i Consigli comunali vanno sciolti “quando compiano atti contrari alla Costituzione o per gravi e persistenti violazioni di legge” da porre nello specifico in correlazione con l’art. 120 della Costituzione, in particolare – ma non solo – laddove si legge della mancata tutela dei livelli essenziali delle prestazioni riguardanti i diritti civili e sociali».
Per Nicola Candiano, l’ipotesi dello scioglimento del Consiglio comunale «si basa anche su un’interpretazione logico-sistematica: se il Consiglio comunale può essere sciolto per la mancata approvazione del Bilancio (lett. C dello stesso art 141 Tuel), può accadere lo stesso per lo Statuto che è l’atto fondamentale dell’Ente».
Non solo. Questa tesi «può contare su un precedente. Già nella prima stagione autonomista inaugurata con l’emanazione della legge n. 142/1990, era stato fissato il termine di un anno della entrata in vigore dello Statuto perché fosse approvato dai Comuni. Il Ministero dell’Interno, con una circolare (n.15900/1bis/L142 del 15/10/1990) impartiva le sue istruzioni: “Tale termine (quello di un anno, ndr) non può essere considerato perentorio, sia perché la legge non prevede specifiche sanzioni o surroghe, sia perché nessuno potrebbe sostituirsi all’Ente locale nell’adozione di un atto che per sua natura costituisce la massima autonomia dell’Ente. Tuttavia, dopo la scadenza di detto termine il Prefetto, qualora l’inadempienza dovesse protrarsi nel tempo senza un giustificato motivo, inviterà l’Ente medesimo a provvedere al riguardo, ed accertata la persistenza della violazione di legge, procederà alla proposta di scioglimento del Consiglio ai sensi dell’art. 39 lett.a) L. n. 142/1990”».
Per di più, in questo senso «si era orientata la dottrina giuspubblicistica più avvertita del tempo. Ma – al di là ed oltre le discussioni in punto di diritto e qualunque sia la tesi più fondata – conta l’indubbio disvalore di un atteggiamento omissivo del Consiglio comunale – conclude Nicola Candiano – suscettibile di privare la comunità della prerogativa di esercitare la propria autonomia, oggi costituzionalmente garantita».
E con l’aggravante del fallimento politico. (l.latella@corrierecal.it)

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