VIBO VALENTIA La gestione e lo smaltimento dei rifiuti era considerato dai clan vibonesi un business proficuo, ma anche l’occasione per definire accordi e spartizioni, quelle fra le ‘ndrine riconducibili a Mantella, a Luni Mancuso e ai Fiarè. A smuovere le acque e, in alcuni casi ad agitarle, è stata poi una particolare circostanza legata anche all’emergenza rifiuti a Vibo Valentia e risalente all’estate del 2014. In ballo c’era il subentro della ditta “Progetto Ambiente Soc. Cooperativa” alla “Eurocoop”, così come previsto dalla determinazione n. 188 del Comune di Vibo Valentia, all’epoca guidato dal sindaco Nicola D’Agostino.
A rendere la questione particolarmente complessa era la difficoltà di “Eurocoop” – il cui contratto scadeva nel mese di giugno 2014 – di pagare gli stipendi, accumulando ritardi nel pagamento dei salari dei dipendenti, scatenando la protesta di questi ultimi con conseguenti ed enormi disagi nella raccolta dei rifiuti che, nel frattempo, si erano accumulati per le vie di Vibo Valentia. Anche perché la “Progetto Ambiente”, per via del mancato accordo sulla stipula dei contratti con il personale, aveva posticipato il subentro, ratificato poi con un accordo prefettizio.
La ditta è formalmente riconducibile a Gregorio Farfaglia, imprenditore ritenuto però «affiancato e appoggiato dalla cosca Fiarè» così come riporta il gip del Tribunale di Catanzaro, Maria Cristina Flesca, al punto che il boss Rosario Fiarè era già consapevole che, l’appalto per lo smaltimento dei rifiuti, sarebbe spettato a «loro», con annessi 8 nuovi posti di lavoro da distribuire. Questo risulta, secondo gli inquirenti, dalla conversazione avuta tra Rosario Fiarè e Anna Maria Scrugli, non indagata in questa inchiesta. «Volevo dirti una cosa – dice Rosario in una conversazione del 27 marzo 2014 – ti chiamo sabato mattina». I due effettivamente si sentono telefonicamente il sabato successivo, il 29 marzo, concordano un incontro e si vedono di persona. A delineare i motivi dell’incontro è la stessa Scrugli mentre parla al telefono con il figlio, Domenico Paglianiti. «Sono andata là sotto, da Rosario (…) te la dico questa cosa, ma non andare a parlare con nessuno (…) ha preso l’appalto uno di San Gregorio d’Ippona, per la spazzatura (…) ha detto “mi toccano 8 posti”, tu che fai? Vuoi andare?», ottenendo il consenso del figlio. Stessa conversazione con l’altro figlio, Antonio Scrugli: «(…) stanno prendendo l’appalto nuovo di questo della spazzatura (…) per andare a lavorare, e mi ha detto “ma non è che ci fa fare qualche figura di merda?” Gli ho detto io “no!”».
Il racconto di Mantella sulla “spartizione” tra clan trova riscontro, secondo gli inquirenti, attraverso una serie di risultanze investigative, così come riporta il gip nell’ordinanza. Quando subentra un altro soggetto contiguo al clan Mancuso, Edmondo Primavera, favorito attraverso l’assunzione nella società subentrata nell’appalto. Si tratta di un soggetto ampiamente noto alle forze di polizia, un pluripregiudicato per diversi reati, e vanta anche conoscenze e frequentazioni con i fratelli Domenico e Roberto Piccolo di Nicotera, ritenuti entrambi contigui ai Mancuso di Limbadi. «Le persone che sono fidate, vai a dirglielo e portategli i documenti che siete già assunti, ok? Il resto poi si vede». A parlare con Primavera è tale Melino, Ciro Carmelo, di fatto intermediario di Gregorio “Rino” Farfaglia affinché si procedesse all’assunzione di un “ristretto” gruppo di ex lavoratori della “Eurocoop”, le più “fidate”. «(…) solo al gruppetto che hai fatto tu» spiega Melino a Primavera «il resto si vede, pensa per te, non pensare per gli altri. L’esito delle conversazioni porterà, poi, all’assunzione nella subentrante “Progettoambiente”.
Nella vicenda ricostruita dagli inquirenti si inserisce il profilo di un altro soggetto, Gaetano Antonio Cannatà, da alcuni anni nuovo collaboratore di giustizia. In una conversazione intercettata insieme a Melino parlano di un certo “Luigi” che si sta recando in un luogo non precisato. Per gli inquirenti non c’è dubbio che si tratti di Luigi Mancuso, il boss indiscusso dell’omonimo clan vibonese, allontanatosi dalla propria abitazione nonostante gli obblighi della sorveglianza speciale. «Sta venendo lui personalmente» dice Melino a Cannatà che, incredulo, risponde: «Chi, Luigi? E non è latitante?» «Eh, eh, eh. Basta, basta…». Nel corso della conversazione Cannatà fa il nome di tale Alfonso Cicerone, indicato come il nipote di “zio Antonio”. Per gli inquirenti, dunque, si tratterebbe realmente del nipote di Antonio Mancuso, fratello del boss Luigi, anche lui uno dei massimi esponenti della cosca di Limbadi. Cicerone, inoltre, era già un dipendente della “Eurocoop” affidataria dello smaltimento dei rifiuti nei comuni di Vibo Valentia, Pizzo e Mileto.
«(…) puoi domandare ed è il nipote dello zio Antonio! E lavorano insieme» dice Cannatà a Melino che replica: «A Luni lo abbiamo tenuto per tre mesi!» «Sono dei nostri, quindi! – risponde Melino – io gliene ho fatti di favori!». E su questa ultima affermazione che gli inquirenti si sono soffermati. Già perché è ipotizzabile che uno dei “favori” citati potrebbe essere l’ospitalità offerta a “Luni”, soggetto che all’epoca risultava davvero irreperibile e destinatario di un’ordinanza di custodia cautelare in carcere. Teoria confermata da Cannatà ad agosto 2020 in seguito alla sua collaborazione con la giustizia. (redazione@corrierecal.it)
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