CATANZARO «È nel riquadro in basso, con il giubbino blu e i capelli rasati».
Collegato da un sito protetto, Tommaso Rosa, 59 anni, collaboratore di giustizia, indica il monitor in cui sono presenti gli imputati del processo Basso Profilo in videoconferenza dalle carceri in cui sono detenuti. Tra questi c’è il boss Antonio Santo Bagnato, capo del locale di Roccabernarda. «Io ho preso parte alla ‘ndrangheta di Roccabernarda», dice il collaboratore rispondendo alle domande del pm della Dda di Catanzaro Paolo Sirleo.
Tommaso Rosa – giudicato in abbreviato – è stato condannato a 11 anni e cinque mesi di reclusione, accusato di essere «riferimento operativo dell’organizzazione ‘ndranghetistica di Roccabernarda, in quanto legato a Antonio Santo Bagnato capo del locale di Roccabernarda, avvalendosi della sua intraprendenza imprenditoriale e veicolando parte dei proventi alle cosche, curava la gestione di società fittizie – nelle quali figuravano prestanomi a lui legati – create al precipuo scopo di incamerare illeciti profitti mediante condotte decettive ai danni dell’Erario e degli enti previdenziali (società nelle quali venivano impiegati dipendenti indicati dal Bagnato)».
Rosa racconta di avere lasciato il paese da bambino, verso i 7/8 anni, di essersi trasferito a Torino e di essere tornato parecchi anni più tardi. «Nel 2005/2006 mi sono avvicinato a Bagnato per le amicizie che avevamo in comune e mi sono legato a lui. Sapevo chi era». Per suo conto Rosa racconta di avere cominciato a fare danneggiamenti. Non solo. Racconta di avere partecipato alla riunione per l’omicidio di Rocco Castiglione e alla gambizzazione del genero di Raffaele Castiglione. I Castiglione sono una famiglia considerata refrattaria ad allinearsi alle direttive del capo locale Antonio Bagnato.
Il collaboratore racconta che il locale di Roccabernarda era legato alle ‘ndrine di Petilia, Cutro, San Mauro, Santa Serverina, e «a quelli di Cirò». Fa i nomi di Antonio Marrazzo, Antonio Cianflone e Domenico Iaquinta (oggi collaboratore di giustizia).
Tommaso Rosa racconta di avere aperto, grazie a Pier Paolo Caloiro, altro imputato di questo processo, una ditta individuale intestata a suo nome a Sellia Marina. Dice che Caloiro è imparentato coi Trapasso. Che Giovanni Trapasso comanda a San Leonardo di Cutro e a Roccabernarda si sapeva chi fossero i Trapasso. Rosa dice anche che la ditta di Sellia era stata messa su con lo scopo di farla fallire. Bastava tenerla aperta giusto il tempo di ottenere la fiducia dei fornitori e la possibilità di pagare a 30/60 giorni. L’azienda è fallita nel 2016. Si chiamava “Deter Tommy” e si occupava di prodotti detergenti. Rosa racconta che dopo il fallimento le forniture vennero vendute ad un’altra persona.
«Caloiro mi ha presentato Antonio Gallo – dice il collaboratore –. Mi è stato presentato come imprenditore nel settore dell’antinfortunistica e pulizia villaggi». «Io gli ho detto chi ero e che appartenevo alla ‘ndrangheta di Roccabernarda, che ero un uomo di Bagnato. Mi ha detto: “Mi fa piacere”».
Tommaso Rosa racconta in aula che dopo il fallimento della “Deter Tommy”, avviò con Antonio Gallo una serie di aziende: una di pulizie, una di servizio vari, «ne ho aperte un casino». «Le aziende – aggiunge Rosa – erano sempre di Gallo, le gestiva Gallo, erano intestate a “teste di legno”, tra questa anche mia moglie Concetta di Noia (anche lei collaboratrice, condannata a nove anni e sei mesi, ndr)».
Rosa nomina le persone che aveva individuato come “teste di legno”. «Ci sono Eugenia Curcio che aveva bisogno di lavorare – dice –. Poi ha fatto subentrare il suo compagno, Grillone, e quando il Grillone è andato via, Curcio ha proposto la figlia».
Il collaboratore specifica che, quando ha avviato queste attività con Gallo, era sempre legato ad Antonio Santo Bagnato e a lui rispondeva. Racconta di avere presentato Bagnato a Gallo, su richiesta di quest’ultimo, nel 2016. I due si sono allontanati per parlare. «Non ho sentito cosa si sono detti»
Il rapporto tra Gallo e Rosa, dice il collaboratore, era quotidiano. «Io Gallo lo incontravo tutti i giorni, parlavamo», dice.
Rosa sostiene che tutti i capi ‘ndrangheta erano amici di Gallo. A Mesoraca c’era Ferrazzo, detto “Topolino”. Gallo gli avrebbe detto che per lui era come un padre. «Era molto legato con quelli di Cirò», aggiunge. «Conosceva i Trapasso – racconta il collaboratore –, erano legati avevano gestito delle aziende insieme ma si erano allontanati quando Gallo si era accorto che la Dda gli stava addosso». Gallo, dice Tommaso Rosa, andava anche a Isola Capo Rizzuto a portare regali e «mi ha detto che aveva amicizie mafiose anche su Reggio Calabria perché aveva un negozio lì e conosceva un politico che era stato arrestato».
Poi il collaboratore racconta di avere appreso da Antonio Gallo che a Sersale aveva nascosto delle armi per Tommaso Guzzetti, un imprenditore del settore boschivo ucciso in un agguato nel 2015.
Per quanto riguarda il raggiro contestato delle attività fittizie messe su con Gallo, Tommaso Rosa racconta che sua moglie Concetta Di Noia andava da Gallo e Gallo le dava le fatture. Poi la Di Noia «faceva bonifici alle aziende della Curcio e delle Cerenzia». Coloro che effettuavano i prelievi di denaro erano Curcio, Cerenzia, Maria Teresa Sinopoli. I soldi andavano a Gallo. «Noi avevamo un mensile. Io avevo un mensile di 1000 euro più una percentuale». L’esame di Tommaso Rosa è stato interrotto, dopo circa tre ore, per un malore del collaboratore. Dovrebbe proseguire venerdì prossimo. (a.truzzolillo@corrierecal.it)
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