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Futuri possibili

Teti: «Restare in Calabria? È un’idea “politica”, sociale ed etica»

L’antropologo offre una nuova lettura del futuro delle aree interne della regione. Ma avverte: «Occorre invertire lo sguardo»

Pubblicato il: 21/01/2024 – 7:00
di Roberto De Santo
Teti: «Restare in Calabria? È un’idea “politica”, sociale ed etica»

COSENZA Restare come scelta responsabile. Filosofia di vita, ma nel contempo strategia politica per offrire nuova speranza a territori che assistono allo spopolamento progressivo. Non un’apatica volontà, ma segno di un riscatto possibile. Una sorta di avanguardia per modelli nuovi e diversi, di sviluppo socio-economico della Calabria. Soprattutto quella costituita dalle aree interne e dalle zone rurali, più soggette rispetto ad altre, alla diaspora dei calabresi. Vito Teti, già professore ordinario di Antropologia culturale all’Università della Calabria, ne è un fautore. Antesignano ante litteram di quella scelta «dolorosa» e «lacerante» di chi ha scelto di vivere, nonostante tutto nelle zone più interne della Calabria. Antropologo e scrittore, Teti fa parte del Consiglio Direttivo di “Riabitare l’Italia” e di quello della “Rete del Ritorno” ed è presidente del Centro ricerche iniziative spopolamento spostamenti ambiente (Crissa), aderente all’Unione nazionale per la lotta contro l’analfabetismo (Unla). Ma prima di ogni cosa, Teti rimane un ricercatore di mondi possibili. Sulle occasioni perdute, il professore, punta il dito sulla «mancanza di buona politica» e sul futuro crede fermamente nel ruolo che «questi luoghi vuoti, tristi, amati, odiati potrebbero diventare la salvezza di quanti potrebbero, per i grandi rivolgimenti climatici, fuggire dalle grandi città o dal mare»

L’antrologo e scrittore Vito Teti

Professore, a lei si deve il termine “restanza” come modello nuovo e diverso di vivere in Calabria e nel Meridione, ma anche nelle aree interne dell’Italia e nelle città. Ci spieghi meglio in cosa consiste?
«La mia infanzia, il mio vissuto, la mia memoria, la mia “identità” sono fatti di storie di viaggio, distacchi, lontananze, porte chiuse, pianti per la partenza di familiari e amici. Sono figlio di una terra inquieta, in fuga, popolata da erranti, camminatori, esuli, e anche da donne, figli, anziani che attendono. La fuga è l’altro volto della stanzialità. Intere comunità si frantumano, si spezzano, si sdoppiano per calamità naturali e per l’emigrazione. La “restanza” non è separabile da erranza, partenza, ritorno, mobilità, mutamento. Rimasti e partiti, assieme, costituiscono l’anima profonda, lacerata, frammentata della nostra regione. Per questo in un libro di racconti e memorie di emigrazione (“Pietre di pane”, Quodlibet, 2012, di cui il 7 febbraio esce una nuova edizione aggiornata, con una prefazione inedita), ho adoperato per primo (come categoria filosofica, antropologica, sociologica, politica) il concetto di “restanza” anche come esperienza dolorosa e autentica dell’essere sempre “fuori luogo”. Come sradicamento totale di colui che resta fermo. Le due esperienze – migrare e restare – sono complementari, vanno colte e narrate insieme. Restare, allora, non è una scorciatoia, un atto di pigrizia, una scelta di comodità; restare è un’avventura, un atto di responsabilità, una fatica e un dolore. Questa accezione ha avuto una grande fortuna e successo tra le giovani generazioni (sia partiti che rimasti), nella stampa, nell’antropologia italiana, canadese, inglese e americana e, in questa formulazione, è stata registrata dalla “Treccani” e dall’ “Accademia della Crusca” e “La restanza” (Einaudi, 2022) è alla quinta ristampa. Ho sostenuto con convinzione che restare e migrare sono inseparabili e che, penso al caso della Calabria, soltanto dialoghi, scambi, progetti condivisi tra “fratelli” che hanno “scelto” diversamente di partire o di restare, potrebbero essere decisivi (con l’apporto di nuovi arrivati, di immigrati, ritornati) per arrestare il declino demografico, economico, sociale, che ha ormai una dimensione drammatica, di cui pare non ci si voglia rendere conto. Non a caso ho affermato (con la buona compagnia del Papa): «Al diritto a migrare corrisponde il diritto a restare, edificando un altro senso dei luoghi e di se stessi». Bisogna fare attenzione a quanti, in maniera retorica, strumentale e dannosa privilegiano un’idea di restanza come slogan, moda, gadget, occasione per affari dei soliti noti. Contro una visione romantica, estetizzante, strumentale, edulcorata, della “restanza”, delle rovine, dei paesi, è necessario capire che restare comporta fatica, dolore, inquietudine, responsabilità, impegno e anche resistenza, operosità, voglia di “rigenerare” i luoghi.  È un’idea “politica”, sociale ed etica del restare e migliaia e migliaia di persone sono impegnati in opere innovative, creative, rivoluzionarie, aperte, volte a cambiare i luoghi, visti come luoghi del mondo».

Le bellezze delle aree interne, come quella del Pollino, possono offrire chance di sviluppo per la Calabria

Secondo il professor Domenico Cersosimo, nell’intervista che ci ha rilasciato, la Calabria non dovrebbe più imitare modelli di crescita del capitalismo novecentesco. Concorda con questa tesi?
«Concordo totalmente. Domenico Cersosimo è uno dei pochi intellettuali e studiosi di economie locali (si veda “Lento Pede”, curato con Sabina Licursi e altri studiosi dell’Unical) ad avere fatto ricerche prolungate nelle aree interne, ad avere studiato paesi e centri urbani. La Calabria del passato, dopo la fine dell’economia legata alla terra e dopo la sconfitta delle lotte contadine, si è svuotata, ha perso energie. È diventata luogo di assistenzialismo, di dipendenza dall’economia e dalle scelte esterne, ha vissuto il mito di una falsa industrializzazione e di una modernità incompiuta. Il mito dell’industria e della città, il “fordismo” non esistono più. Così la Calabria si trova a ripensare che, forse, l’abbandono delle montagne (che non erano luoghi improduttivi e arretrati come si voleva far credere), delle aree interne, dei paesi, dei grossi centri non solo hanno creato ulteriore dipendenza, economie illegali, clientele, ma soprattutto un vuoto demografico, spaziale, mentale, culturale, che ha generato apatia, sfiducia, rassegnazione. Sensazioni che certo non aiutano ad essere attivi, produttivi, liberi dalle scelte esterne. Il capitalismo e il neoliberismo sono falliti in tutto il mondo, non sono, certo, in grado di risolvere i problemi di territori resi marginali, fragili, deboli. Il neoliberismo ci ha portato guerre, fame nel mondo, crisi climatica, di cui faremmo bene ad occuparci, senza restare sempre chiusi in un provincialismo e un localismo funzionale ai gruppi dirigenti, che prosperano, come diceva Alvaro, sulle catastrofi, le sfortune, le disgrazie della povera gente. Bisogna rovesciare questo sciagurato modello di sviluppo».

Secondo Teti, occorre abbandonare il mito delle grandi opere e realizzare i mille interventi per garantire la vivibilità nelle aree interne

Cioè, come tradurre questa teoria in una strategia per valorizzare le aree interne della Calabria?
«Con nuove strategie e piani integrati d’intervento. Le aree interne per poter tornare a vivere hanno bisogno di nuove economie legate alla terra, alle produzioni locali, spesso uniche, alla loro valorizzazione vera e non di facciata, rituale. Hanno bisogno di strade, viabilità adeguata, di scuole, di presidi medici e ospedalieri. La messa in sicurezza del territorio, dei centri storici, dei paesi, degli edifici pubblici e privati, soprattutto delle scuole, in una terra a rischio terremoto e sempre più colpita da alluvioni e frane (specialmente con una crisi climatica in corso), sarebbe una priorità assoluta. Non si dimentichi che l’abbandono di montagne e di boschi e il mancato controllo delle acque hanno costi enormi, provocano disastri anche a valle, lungo le marine. La loro cura eviterebbe l’inquinamento, la devastazione dei centri costieri. I paesi dell’interno andrebbero collegati con le pianure e le marine. E qui dovremmo avere autostrade, ferrovie, stazioni, treni degni di questo nome. Insomma abbandonare il mito delle grandi opere – quello del Ponte in primo luogo – e fare mille e mille interventi collegati, coordinati, con un’idea del territorio e della Calabria, che potrebbero dare occupazione, lavoro, a imprese innovative, a giovani, tecnici, professionisti portatori di nuovi saperi e di nuove esperienze, desiderosi d’investire e di scommettere nella loro terra. Cura, riguardo, prevenzione, interventi coordinati creerebbero nuove opportunità per “maestranze”, neo-contadini, neo-commercianti, produttori che sanno investire anche con fantasia e senso dell’innovazione, orgogliosi di offrire prodotti (specie in campo alimentare ed enologico e artigianale) di qualità, “unici”.  Infine, ma non da ultimo, le aree interne hanno paesaggi di grande bellezza, esercitano un fascino e un’attrazione nei locali e nei forestieri, in quelli che tornano, hanno architetture, chiese, palazzi, un’edilizia popolare di grande interesse, conservano, nonostante mutamento e abbandoni, “tradizioni”, riti, feste, socialità, convivialità. Su questi beni materiali e immateriali, per cui la Calabria è unica, sulla sua varietà e sulle sue peculiarità ambientali e culturali, bisognerebbe investire per alimentare un turismo vero, fatto di persone che vogliono conoscere i luoghi e incontrare l’altro, per richiamare emigrati, per incoraggiare chi vuole restare. L’elenco potrebbe continuare, ma insomma le risorse non mancano».

È la mancanza di politica vera e non di risorse il nodo del mancato sviluppo della Calabria

Come dice lei dunque le risorse economiche per avviare politiche in tale senso ci sono o meglio ci sono sempre state. Allora cosa è mancato finora?
«In sintesi, è mancata la buona politica, sono stati assenti o inadeguati (fatte dovute eccezioni) le élite economiche, intellettuali, imprenditrici. In una terra sempre più desertificata si sono affermate logiche clientelari, assistenzialismo, sistemi di favori e illegalità, che spesso hanno spinto alla fuga i “migliori” e i giovani. È mancata la capacità di trasformare la “maledizione” in “benedizione”, le risorse in ricchezza. La retorica è prevalsa sulla “persuasione”. Le divisioni, i localismi, i campanilismi non hanno favorito elaborazioni, progetti, azioni comuni e condivise per il bene pubblico. Non sono state adeguatamente utilizzate e impiegate le Università (che pure non sono un’oasi felice), altre istituzioni culturali di ricerca. Inoltre i risultati positivi di imprenditori, professionisti, giovani non sono stati contagiosi, non hanno creato una diffusa cultura e un’etica del fare».

Lo spopolamento soprattutto dei piccoli centri ha lasciato solo anziani a presidiare il territorio

E c’è da contrastare anche il fenomeno dello spopolamento che sembra essere divenuto un destino ineluttabile per la Calabria. L’abbandono dei centri non è solo un problema sociale, ma diviene emergenza economica. Non solo per i piccoli comuni
«Me ne occupo da decenni. Ho scritto libri e saggi, ho fatto indagini, lanciato avvertenze su questo fenomeno, cominciato decenni fa, che adesso, come mostra proprio Cersosimo, è diventato drammatico. Si rischia, anche a breve, la “chiusura” di molti paesi, la desertificazione anche di centri urbani, lo spopolamento delle stesse città. Il vuoto crea scomparsa della memoria, rischio di perdita della presenza fisica, fine delle famiglie (non esisteranno più i fratelli, a breve). Una catastrofe immane, peraltro, in un mondo che sembra essere attratto dalla fine. Rispetto a questo scenario, c’è chi si limita a lamentele generiche, a un aristocratico dare la colpa agli altri, a un furbesco trasformismo e a moralistiche prediche per autoassolversi. Il risultato è non fare nulla, tanto è tutto perduto. C’è chi vede il paese come luogo della perdizione e dell’impossibilità di vivere; c’è chi, al contrario, lo considera il luogo del mito, della purezza, della felicità e lo racconta in maniera enfatica, retorica, romantica, inventando “placidi” borghi mai esistiti e che non esistono adesso. Sono mancati – per fortuna le cose stanno cambiando – sguardi realistici, veri, duri, amari, che sono quelli che poi spingono al cambiamento, al fare, alla progettualità. Qualcuno sostiene che siccome i paesi sono luoghi di tristezza, destinati a morire, è meglio andarsene, fuggire, mandare i giovani nelle città e nelle metropoli (dando per scontato che siano dei Paradisi). Ora ognuno deve (dovrebbe) scegliere di vivere dove gli pare, ma consigliare il 67 per cento (vedi analisi di Membretti, Donzelli, Cersosimo, “Riabitare l’Italia”) dei giovani che vorrebbero restare a “disertare”, a lasciare affetti e il mondo che vorrebbero migliorare e cambiare, mi sembra davvero apocalittico e disfattista. Vedo una certa vocazione all’eutanasia nei confronti di paesi ancora in vita e, d’altra parte, un accanimento terapeutico (per interesse) nei confronti di luoghi abbandonati. I poveri paesi sono accerchiati da amorevoli procuratori di morte o da esteti del vuoto, dell’abbandono, delle macerie. E tutto questo avviene, mentre molti giovani, Associazioni, Enti, imprenditori in tutte le aree interne del Sud, delle isole e dell’Italia, in contesti marginali e sfavoriti, stanno fornendo, con sforzi enormi, esempi di vitalità, non si rassegnano, parlano di un restare innovativo, creativo, capace di dare nuovo impulso alle comunità, da ricostruire o da fondare. Sono, a mio modo di vedere, gli eredi della vocazione a migliorare le cose, a faticare, a sperare dei nostri contadini, braccianti, emigrati: sono forse esponenti di un nuovo “meridionalismo” (che è stato messo in disparte)».

Sono i giovani ad andare via dalle aree interne. Secondo Teti occorre offrire loro speranza

Lei parla dei giovani, ma sono soprattutto loro ad andare via dalla regione, inseguendo la logica che il futuro è altrove. Lontano dalla Calabria. Quale messaggio di speranza si può offrire?
«Intendiamoci come diceva Alvaro in Gente in Aspromonte, “non è bella la vita dei pastori” e della gente nei paesi. Sono nato, cresciuto in un piccolo paese, dove, dopo viaggi e lunghi periodi di lavoro fuori, anche al Nord, anche in Europa e nelle Americhe, sono sempre tornato. Il mio paese che era pieno adesso è vuoto. Soffro terribilmente a camminare nelle strade vuote, a vivere in una “ruga” quasi deserta, a vedere le porte chiuse, le case cadenti, a “contare” quanti partono e quanti tornano, ad assistere alla chiusura di negozi, bar, botteghe. Dal 1972 scrivo un diario sul mio “mal di vivere in paese”. Eppure so che non potrei fuggire, che una città o un comodo pendolarismo (che non mi posso permettere) non risolverebbe la mia melanconia, anche perché è tutto il mondo precario, fragile, incerto, a rischio. Alterno pessimismo ad ottimismo. Ma capisco sempre di più, adesso che sono vecchio e ho i figli fuori, con quasi tutti i loro amici, i giovani del paese. Non posso che cercare di vivere (come dice Cersosimo) la rarefazione (lo fanno in tantissimi), e combattere per il diritto a restare, a partire e a tornare. A impegnarmi, con altri, per avere strade, cinema, edicole, scuole, musei. Bisogna (come in “Riabitare l’Italia” curato dal piemontese De Rossi, che insegna a Torino e si occupa di aree rarefatte) invertire lo sguardo, ripartire dai margini, dalle periferie, dalle schegge, da quel che resta. I dati demografici sono disperati, ma allora, invece che all’estinzione, bisogna pensare a politiche per le famiglie, sostegno ai giovani, cultura dell’accoglienza, pratiche buone per incoraggiare (chi vuole) a restare o a tornare. Per rendere partecipi del destino dei paesi anche quelli che sono andati via, per scelta o per necessità, ma si sentono legati al luogo d’origine, tornano d’estate e hanno voglia di fare, organizzare, partecipare nella creazione di manifestazioni culturali. Lo spopolamento è una realtà, ma è una condanna definitiva? E le “Langhe” di Nuto Revelli non ci dicono nulla? Ma lo spopolamento – come argomenta in un suo bellissimo saggio Fulvio Librandi – è anche una “postura”, un dispositivo culturale e mentale per il “non ancora”. Chi pensa che il “non ancora” significherà “fine di un mondo” (perché la Fine del Mondo è un’altra storia), che nulla sia possibile fare, che il peggio è inevitabile e che paese è “brutto, sporco e cattivo”, allora può continuare a favoleggiare di fughe, di andate e ritorni, di vita in paese e, insieme, in città. Chi, invece pensa, che, come dice Latour, non sappiamo “dove siamo” e che siamo in cammino, viandanti con una visione etica, pronti allo stupore, alla sorpresa, all’incontro, a guardare i nuovi paesaggi, senza pensare a un telos, che va inventato giorno per giorno. Chi è fuori da etnocentrismo, urbanocentrismo, antropocentrismo, non può che accendere, per sé e per gli altri, il dispositivo della speranza. Dell’Utopia minima e concreta. Può pensare che i luoghi rarefatti, vuoti, abbandonati, possano diventare pieni. Somiglino al “Terzo Paesaggio”, di cui parlano urbanisti, artisti, filosofi (penso a Caffo) dove potrebbe vivere l’umanità di domani. In fondo la salvezza del pianeta è affidata a 300 abitanti dell’Amazzonia, che restano per difendere, spesso morendo, la loro e la nostra foresta. In fondo questi luoghi vuoti, tristi, amati, odiati potrebbero diventare la salvezza di quanti potrebbero, per i grandi rivolgimenti climatici, fuggire dalle grandi città o dal mare. Non vedrò tutto ciò, non so come andrà. Cerco di vivere con la dignità degli “ultimi” il mio dolore e anche di sperare per le nuove generazioni. Anche sbagliando, anche perdendo, avrò combattuto contro la “Morte” (il bel titolo del libro di Canetti), contro la cultura necrofila che si afferma in tutto il mondo, per la vita». (r.desanto@corrierecal.it)

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