Luisa Corazza è professore ordinario nell’Università del Molise, dove insegna Diritto del lavoro. Con lei, che nello stesso ateneo dirige il Centro di ricerca per le aree interne e gli Appennini (ArIA), oggi parliamo del passato, del presente e del futuro delle aree interne, argomento al centro dell’interesse scientifico della studiosa, che al riguardo ha scritto anche articoli divulgativi su “Il Sole 24 Ore”. Al tema in questione, il Corriere della Calabria ha dedicato ampio spazio, anche con approfondimenti su analisi dell’economista Domenico Cersosimo (qui un link, qui un altro e anche qui) e dell’antropologo Vito Teti (qui il link).
La cosiddetta «autonomia differenziata», sostiene Corazza, può aumentare gli squilibri già esistenti tra le aree interne, «territori fragili che hanno bisogno di politiche pubbliche non improntate al criterio dell’efficienza ma basate su criteri di redistribuzione, di riequilibrio». In quanto all’utilità del Pnrr, la giurista si chiede: «Può giovare significativamente alle aree interne? Che cosa vi resterà, quando sarà cessato questo flusso di danaro, che per il momento sta toccando tante aree del nostro Paese ma che rischia di non lasciare, poi, dei segni profondi?».
Professoressa, in un suo articolo aveva scritto del rapporto tra smart working e aree interne. È un tema che ha impegnato il dibattito pubblico, in particolare a seguito delle restrizioni conseguenti alla diffusione del Covid. Che genere di evoluzione si è registrata al riguardo?
Il tema è esploso durante la pandemia. Con la fine dell’emergenza sanitaria, ci sono state alcune realtà produttive che hanno compiuto dei passi indietro rispetto alla diffusione dello smart working. Ora si tratta di verificare quanto lo smart working si stabilizzerà nell’organizzazione del lavoro e soprattutto in quali forme. Per esempio, si sta ricorrendo molto a una forma “ibrida”, che prevede una ripartizione del lavoro: alcune giornate in presenza, altre da remoto. Ciò premesso, atteso che ancora non si possono fare previsioni di carattere definitivo, è vero che dopo la pandemia la tendenza al ricorso allo smart working è diventata costante un po’ in tutti i Paesi industrializzati. Alcune grandi imprese hanno chiuso i propri uffici e venduto gli spazi. Per quanto sarà necessario soppesarne la persistenza in termini quantitativi e organizzativi, ormai lo smart working è una realtà con cui la nostra organizzazione del lavoro si deve misurare.
Quali scenari si aprono per le aree interne?
In questa prospettiva, rispetto alle aree interne, come si è visto durante la pandemia e nel periodo successivo, si aprono opportunità del tutto nuove. Le aree interne sono interessate da un processo che affonda molte delle sue radici nell’assenza di realtà produttive, di occasioni di lavoro. Tuttavia, se il lavoratore può scegliere dove abitare, lavorando per un’impresa che ha una sede altrove, ecco che lo scenario cambia completamente. Infatti, per esempio, il nostro Centro di ricerca per le aree interne e gli appennini (ArIA), ha lavorato molto sul tema. In particolare, insieme all’Inapp (l’Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche), abbiamo avviato un grande progetto di ricerca e istituito un osservatorio sull’impatto dello smart working nell’equilibrio demografico delle aree interne. Abbiamo lanciato una call for papers la scorsa estate, e nel successivo mese di ottobre svolto un seminario, di cui stiamo raccogliendo i risultati in un apposito volume. Le anticipo che sta emergendo un quadro preciso: molte realtà delle aree interne, anche all’estero, hanno colto l’occasione di una vita diversa rappresentata dallo smart working.
Ma lei ha significato che il fenomeno non è ancora sistemico.
Certo, non è semplice rendere strutturale questa situazione. Vi sono aree interne, per esempio, che hanno una posizione geografica per cui sono facilmente raggiungibili partendo da centri urbani nei quali insistono grandi realtà produttive. Sto pensando alle aree interne del Piemonte e della Val d’Aosta, per esempio, che gravitano vicino alle città di Milano e di Torino. Poi c’è anche il fatto che le aree interne, come ben sappiamo, sono carenti di tanti servizi; quindi, non è detto che i lavoratori, i potenziali nuovi abitanti, scelgano di vivere in luoghi in cui persistono carenze di servizi essenziali. Mi riferisco, per esempio, alla scuola per i propri figli. Si verrà a creare dunque una sorta di competizione tra le varie aree interne, per cercare di attrarre nuovi cittadini potenziali, i cosiddetti “nomadi digitali”, cioè i lavoratori in smart working che potrebbero stabilirsi in territori diversi dalle aree urbane.
Come valuta la legislazione a favore delle aree interne?
Siamo in un momento di transizione, perché il disegno fondamentale della Strategia nazionale delle aree interne, quella che ideata dall’allora ministro Fabrizio Barca, è ancora parzialmente in piedi, nel senso che, comunque, l’idea di fondo che lo aveva animato ha tenuto. Le aree interne sono in una crisi di abbandono in virtù della loro lontananza da alcuni servizi essenziali. Questa è la vera differenza tra la Strategia nazionale delle aree interne e gli approcci precedenti in materia di Coesione territoriale, che incentravano gli interventi sulla base di un’attenzione alle strategie di sviluppo, alle realtà produttive. Con l’idea di Fabrizio Barca, invece, si ribalta la clessidra e si indirizza lo sguardo sulle offerte alla cittadinanza in termini di servizi. Questa concezione ha sicuramente tenuto.
E adesso?
Certo, ora ci troviamo in un momento di trasformazione sul piano della governance. Mi riferisco in particolare al cosiddetto decreto Sud, dell’autunno del 2023, che ha modificato la struttura di governance preposta alle politiche sulle aree interne, creando una cabina di regia insediata presso la Presidenza del Consiglio dei ministri. Se, per certi aspetti, questo potrebbe essere il segno di un’attenzione nei confronti del tema, perché la cabina di regia alza il livello dal punto di vista delle competenze, occorrerà poi vedere come concretamente tale organismo potrà operare. Soprattutto, occorrerà vedere come integrare in questa struttura anche una realtà di tipo più stabile, più permanente, prima rappresentata dall’Agenzia di coesione territoriale.
E la nuova Zes?
Certo, qui c’è l’altro grande tema che è quello della cosiddetta “Zes unica per il Sud”, che è stata sempre creata dal riferito decreto. Essa potrebbe interferire con le politiche per le aree interne, perché va a operare in un territorio amplissimo, che è tutto il Sud, offrendo opportunità di incentivazione per l’insediamento delle attività economiche. Ciò, tuttavia, potrebbe penalizzare le aree interne, che potrebbero essere abbandonate a favore di altre aree del Sud invece dotate di infrastrutture, quantomeno sul piano della mobilità. Penso alle autostrade, ai porti, agli aeroporti, eccetera.
A livello normativo manca una differenziazione specifica delle aree interne, che però c’è nella realtà. Le aree montane, per esempio, consumano più energia, intanto per motivi di riscaldamento. Inoltre, hanno costi più alti dei carburanti, per via delle correlate difficoltà di trasporto. In passato, negli anni ’90, si parlava insistentemente di un’adeguata legge per la montagna. La stessa Costituzione, sia pure con riferimento alla proprietà, rimarca che «la legge dispone provvedimenti a favore delle zone montane». Queste zone sono sufficientemente presenti nella legislazione? Mi riferisco, per esempio, alla sanità. Il decreto ministeriale vigente sugli standard ospedalieri prevede la possibilità di realizzare nelle aree montane e nelle aree disagiate delle strutture ospedaliere dotate di un pronto soccorso di base e la possibilità di attivare dei reparti di Chirurgia. Anche qui la differenziazione non è precisa. Qual è la situazione reale, secondo lei, dal punto di vista normativo?
La domanda è interessante. Da ministro per la Coesione territoriale, Fabrizio Barca considerò le aree interne come una questione nazionale, per superare quel campanilismo che fino ad allora aveva caratterizzato l’approccio ai problemi dei singoli territori. Prima della Snai (Strategia nazionale aree interne), ciascuna area interna faceva storia a sé, aveva problemi diversi. Invece, la Strategia nazionale ha per la prima volta posto l’accento sul grande tema della distanza dai servizi essenziali, aspetto che accomuna le aree interne della Val d’Aosta a quelle del Salento e così via. Quindi, c’è stato un grandissimo passo avanti, che ha consentito anche al tema delle aree interne di imporsi nel dibattito pubblico nazionale. Ciò premesso, esistono delle differenze tra le aree interne, è inutile negarlo. Anzitutto ci sono differenze che incrociano i divari territoriali storici, per esempio il divario Nord-Sud. Se andiamo a vedere la condizione delle aree interne del Nord e quella delle aree interne del Sud, soprattutto con riferimento agli insediamenti produttivi o allo sfruttamento per le risorse agricole, ci sono impatti e ambiti diversi. Dunque, è opportuno tenere conto del fatto che, per esempio, nel Sud le aree interne possono avere delle problematiche specifiche. È il discorso che abbiamo fatto prima sul decreto Sud. Poi, ce lo indica la nostra Costituzione, occorre considerare la peculiarità di carattere territoriale, storico, culturale e linguistico, per esempio delle nostre zone montane.
Torna, dunque, il tema della montagna?
Sì. Tra l’altro c’è anche un recente intervento normativo, mi riferisco al disegno di legge sulla montagna, presentato nello scorso ottobre, che promuove, pure nell’ambito delle varie programmazioni strategiche, anche gli insediamenti abitativi nelle zone montane. Penso, peraltro, all’attività dell’Uncem, l’Unione nazionale Comuni, comunità ed enti montani. Insomma, è presente un tema che riguarda specificamente le aree interne della montagna, che pone problematiche diverse. Faccio fatica a dire quanto sia opportuno calcare la mano sulle diversità che caratterizza le aree interne e quanto invece sia importante che la Strategia proceda in termini unitari. Probabilmente, come sempre, la virtù sta nel mezzo. Da un lato, è bene che una visione nazionale delle aree interne sia al centro delle nostre politiche pubbliche. Dall’altro, però, vi sono specificità con cui misurarsi. Qui abbiamo solo incrociato due divari che meritano attenzione: Sud-Nord e aree montane-aree non montane.
Il disegno di legge che noi giornalisti chiamiamo «autonomia differenziata», meglio sarebbe indicarlo come «regionalismo differenziato», può determinare ulteriori squilibri tra le diverse aree interne? A Sondalo, piccolo Comune della Lombardia, c’è un ospedale di eccellenza che offre molto. Non esiste un analogo nel Sud. Se aumenterà la potestà legislativa delle Regioni, quelle più organizzate e attrezzate potranno migliorare i servizi delle aree interne. Che cosa succederà al Sud, invece?
Penso che questo disegno di riorganizzazione delle nostre autonomie presenti dei rischi per le aree interne. C’è un rischio, prima di tutto, dato dalle finalità istituzionali. Le aree interne sono territori fragili; quindi, in quanto tali, hanno bisogno di politiche pubbliche che non siano improntate al criterio dell’efficienza, ma che siano basate su criteri di redistribuzione, di riequilibrio. Se noi seguiamo il criterio per cui chi sta meglio ha di più, le aree interne saranno sempre perdenti: non potranno mai vincere la battaglia. Esse sono per definizione dei territori in difficoltà, rispetto ai quali, per invertire la tendenza, bisogna fare investimenti che vanno contro il principio efficientistico dei costi-benefici. Bisogna prendere coscienza del fatto che lasciare in abbandono determinati territori del nostro Paese potrebbe avere dei costi altissimi per la nostra economia complessiva. Difatti, qui stiamo parlando di una notevolissima superficie del nostro territorio: tre quinti, che non è una porzione minoritaria.
Allora?
Se, in base a questa premessa, le aree interne hanno bisogno di investimenti che consentano di attrarre abitanti, presenta dei problemi la logica che muove l’autonomia differenziata, la quale consente alle regioni con maggiore benessere di capitalizzare al meglio questa condizione e di smarcarsi dagli oneri solidaristici che la nostra Costituzione ha, invece, storicamente assegnato al rapporto tra i territori. Altro discorso è vedere se alcune aree interne potrebbero beneficiare della maggiore autonomia che si verrebbe a creare per alcune regioni. Si tratta, peraltro, di regioni dove le aree interne godono già di salute migliore. Mi viene in mente per esempio l’Emilia-Romagna, in cui teoricamente ci sono le migliori pratiche in materia di aree interne.
Secondo lei, il Piano nazionale di ripresa è resilienza è, per come concepito, soddisfacente per la ripresa delle aree interne?
Proprio su questo argomento, avevo scritto, poco dopo l’avvio del Pnrr, un piccolo articolo sulla rivista online “il Mulino”. In particolare, lì osservo che i relativi finanziamenti sono basati sul meccanismo dei bandi, particolarmente difficile da utilizzare nelle aree interne, per una serie di carenze di carattere strutturale e istituzionale dei soggetti che le governano. Intanto, si tratta di Comuni piccoli e piccolissimi, quindi con una massa critica molto limitata che scontano, nel lungo periodo, il dimagrimento del personale della pubblica amministrazione. In molti Comuni non c’è neanche il personale adeguato né il tempo per elaborare progetti molto complessi. La critica, che rimane, riguarda l’accesso ai fondi del Pnrr. Potremmo però pronunciarci pienamente solo alla fine del periodo di finanziamento. Quanti Comuni, poi, hanno effettivamente beneficiato delle risorse? Come esse sono distribuite? Sono delle perplessità reali, anche se bisogna dire che negli ultimi anni abbiamo visto un’iniezione di finanziamento della nostra spesa pubblica, che è un beneficio in generale e dunque anche per le aree interne.
In conclusione?
Dobbiamo chiederci se il Pnrr può giovare significativamente alle aree interne. Che cosa vi resterà, quando sarà cessato questo flusso di danaro, che per il momento sta toccando tante aree del nostro Paese ma che rischia di non lasciare, poi, dei segni profondi? Le aree interne hanno bisogno di investimenti permanenti, che durino nel tempo. Ciò perché necessitano di infrastrutture, di essere trasformate nel profondo. In termini espliciti, esse richiedono risorse che consentano una trasformazione permanente della loro condizione infrastrutturale. (redazione@corrierecal.it)
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