Custodire, un verbo sacro che stiamo dimenticando
C’è un verbo che stiamo dimenticando in fretta. Almeno nella sua accezione più vera. Nella sua dimensione lessicale che ci illustra la grazia della nostra lingua. Custodire. Il custodire non è un ver…

C’è un verbo che stiamo dimenticando in fretta. Almeno nella sua accezione più vera. Nella sua dimensione lessicale che ci illustra la grazia della nostra lingua. Custodire. Il custodire non è un verbo possessivo che coniuga l’avere, l’essere in possesso appunto, con la protezione.
Il custodire è un verbo sacro. Il paladino delle nostre intimità nascoste, non dei nostri possedimenti. Si custodisce una memoria, un sapere, un affetto. Tutto ciò che è alieno da un significante e da un significato materiale. La nostra società è, però, votata al conflitto. Anche nei confronti del custodire. Macera tutto, vuole avere il dominio su tutto, utilizza tutto e poi dimentica.
Il custodire è un verbo difensivo, invece. Non ammette ingerenze e non vuole chi profana, chi banalizza e chi baratta l’essere. È difficile essere custodi, oggi. Prima si chiamava a far da custode una persona fidata, mite, lontana dai clamori. Oggi, non siamo capaci neppure di essere custodi di un segreto con noi stessi. Dobbiamo esporlo se non imporlo. Dobbiamo appenderlo sul filo dei panni per trovare una legittimazione che, forse, non avremmo.
Il custodire è un atto religioso. Silenzioso come una preghiera. Opaco come il volto della sofferenza. Chiuso come una finestra. Al di qua della quale ci siamo solo noi. A dire al mondo che la nostra fragilità la conosciamo solo noi. E, appunto, la custodiamo solo noi. Perché, nella vita, non vince chi sale. Non vince chi perde per strada la cera che lo avvolge la sera quando fa il saldo della sua giornata. Nella vita vince chi cade, chi cura, chi culla. Il sogno e l’incanto. Un dolore e un amore. Tutto ciò che non ha un prezzo ma un senso. Tutto ciò che merita davvero di essere custodito.
