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Sila miniera archeologica, tempi maturi per un parco diffuso

Il passato remoto e l’interesse archeologico della Sila sono, invece, come oscurati da un velame di rassegnazione interna e pregiudizio esterno, di scarsa conoscenza di autentici tesori

Pubblicato il: 03/05/2024 – 7:01
di Emiliano Morrone
Sila miniera archeologica, tempi maturi per un parco diffuso

«Oi fimmina ’e re petre fravicate», cantava l’autore calabrese Francesco Lopetrone – sublimi gli arrangiamenti del maestro Mario Spinelli del maggio ’83 –, descrivendo un luogo, un quadro di vita di metà Novecento a San Giovanni in Fiore (Cs): le occupazioni femminili di allora, il lavaggio dei panni in un corso d’acqua, l’osservazione di un giovane che aveva puntato una ragazza – «bella mia» – e lì andava spesso a vederla, quasi a spiarla, in quel posto di donne al lavoro delimitato da un muricciolo di pietre.
Le pietre sono una caratteristica della Sila, in particolare dell’area sangiovannese, ricca di graniti che nel tempo hanno invaso interni ed esterni delle case, lapidi e spazi cimiteriali, muri di sostegno e angoli urbani. Invece i massi ciclopici, non di rado granitici, sparsi nel territorio sangiovannese, silano in generale, sono rimasti fuori dallo sguardo collettivo, benché siano di solito disposti a cerchio, finanche con forme strutturali riconducibili alla trascendenza, al culto dei morti o dell’aldilà. Alcuni sono massi erratici e originerebbero dallo scioglimento dei ghiacciai. Secondo una tesi ricorrente, i remoti cambiamenti climatici avrebbero prodotto un innalzamento delle temperature e il trasporto a valle di questi corpi rocciosi durante la graduale scomparsa di vaste formazioni glaciali.

Nella Sila Grande, il latifondo e la successiva rinuncia ai poderi riassegnati negli anni ’50 hanno determinato un impoverimento dei terreni, il loro abbandono definitivo, mentre le politiche occupazionali dell’ultimo quarantennio hanno orientato lo sviluppo locale sulla base dei consumi, sull’idea che la mera circolazione della cartamoneta giovasse al commercio e servisse a garantire redditi bastevoli e stabilità economica. Di contro, si è registrato un progressivo spopolamento del territorio; sia per lo scetticismo crescente rispetto alla possibilità di vivere di turismo; sia per il rifiuto generalizzato di individuare, valorizzare e sfruttare le risorse di natura e cultura in grado di indurre la domanda di posti per dormire; sia per una diffusa inattitudine – peraltro misurata dall’economista Francesco Aiello, ordinario di Politica economica nell’Unical – a investire su moderni servizi ricettivi.
Nel saggio In Magna Sila. Dai primi uomini al tardo Impero nel cuore della Calabria, pubblicato nel 2008 in una raccolta degli “Atti del convegno di studi in onore di Giovanni Azzimmaturo”, l’archeologo Domenico Marino, adesso in servizio nell’Istituto centrale per l’archeologia, ha riassunto i risultati di una campagna di ricerche condotta nell’autunno del 2007 presso il lago Cecita (Cs), nella Sila Grande. «Le indagini – ha precisato lo studioso – hanno interessato i terrazzi della riva meridionale del lago, che sono stati esplorati con ricognizioni sistematiche. I numerosi insediamenti individuati, posizionati con strumentazione satellitare e rilevati mediante stazione totale, si riferiscono ad un arco cronologico che va dal Paleolitico Antico (700.000 a.C.) alla tarda età imperiale (V sec. d.C.)».

È già abbastanza per sostenere che la Sila è una miniera archeologica inesplorata e dunque ignota. Del luogo si conoscono in prevalenza il tipico lupo – reso celebre da un film di Duilio Coletti con Silvana Mangano, Amedeo Nazzari e Vittorio Gassman –, la storia contadina, l’innevamento, la vocazione per lo sci e altri sport invernali e, andando indietro nei secoli, l’utilizzo del legname delle sue foreste, il fresco della loro ombrosità e la dimensione pastorale, già immortalata dal poeta Virgilio nel terzo libro delle “Georgiche”. Il passato remoto e l’interesse archeologico della Sila sono, invece, come oscurati da un velame di rassegnazione interna e pregiudizio esterno: di sottovalutazione mista a superficialità dei residenti, di scarsa conoscenza, su larga scala, dei tesori archeologici che l’altopiano calabrese racchiude e nasconde.
«Sul terrazzo di Campo San Lorenzo – si legge nel contributo di Marino – è stata individuata una fattoria di età imperiale. La documentazione numismatica comprende un sesterzio di Antonino Pio. Le ricerche hanno indagato, inoltre, il terrazzo di Forge di Cecita, sulla cui estrema propaggine settentrionale (area 1), laddove il torrente Cecita confluisce nel fiume Mucone, è stato scoperto, già nel 2005, un eccezionale complesso monumentale sacro di età greca (VI-III sec. a.C.)». E ancora: «I saggi di scavo hanno messo in luce deposizioni di armi in ferro (punte di lancia con i relativi puntali, cuspidi di piccoli giavellotti ed asce), splendidamente conservate, associate a deposizioni di materie organiche (cibo, frutta?) entro piccole fosse segnalate da cippi litici, un frammento di coperchio con iscrizione graffita in alfabeto greco ed una statuetta fittile di divinità in trono con alto polos decorato e pettorale, che rimanda ad esemplari sicelioti». Rinvenute anche «monete relative a diverse zecche magno greche e siceliote, tra cui un incuso di Metaponto, uno statere di Terina, un diobolo d’argento di Taranto ed alcuni bronzi di Reggio e Siracusa».

Tra le scoperte al momento accantonate, da quanto sembra, va annoverata quella dei resti dell’Elephas antiquus, vissuto pure in Calabria sino a 12mila anni fa, trovati sulle sponde del lago Cecita nel 2017. C’era al riguardo un progetto di studio, tuttavia inattuato per «mancanza di fondi» che doveva erogare intanto la Regione Calabria, ha scritto nel gennaio scorso la studiosa Rita Rizzuti, sulla testata on line “Eco dello Jonio”. «I resti dell’Elephas – ha aggiunto – rimangono sotto chiave negli studi» dell’Università del Molise, che a proprie spese aveva avviato indagini su quei materiali.
Altro elefante, però di pietra, si trova nell’area dell’Incavallicata a Campana (Cs), alle pendici della Sila, ritenuto – come il vicino pezzo di guerriero o ciclope mutilo – una scultura megalitica risalente al passaggio di Pirro nel 280 a. C. o a quello di Annibale nel 216 a. C., ma la datazione potrebbe essere molto più antica. Alle porte di San Giovanni in Fiore, lungo la Statale 108 che porta a Savelli (Kr), è poi ubicato il sito delle cosiddette “Petre ’e ru mielu”, che sta per “Pietre del melo”. Sul mensile “Il nuovo Corriere della Sila”, il giornalista e scrittore Saverio Basile – che dirige il periodico ed è la memoria storica del territorio di San Giovanni in Fiore – ha riassunto che si tratta di un insieme di massi di notevoli dimensioni, i quali, secondo Vincenzo Nadile, diventato un’autorità nel settore, sarebbero stati lavorati e disposti dalla mano dell’uomo.

Altro sito interessante è quello dei “Megaliti di Garga”, nel territorio comunale di San Giovanni in Fiore, di cui il geologo Domenico Belcastro ha scritto: «Rappresentano la testimonianza di un processo naturale vecchio di 290 milioni di anni  e sono il risultato della risalita di un ingente volume di magma dal mantello terrestre attraverso le grandi fratture della crosta; la roccia fusa si è gradualmente solidificata all’interno della crosta stessa nello spazio di qualche milione d’anni, formando così, uno dei più grandi corpi magmatici intrusivi della Terra: il batolite granitico della Sila, di cui i tor (termine di origine norvegese con cui si indicano simili megaliti di tipo svettante, nda) rappresentano un geo sito di straordinaria bellezza».
Questi massi, queste petre, per chiamarli in dialetto silano, sono lì al loro posto, nel silenzio dell’uomo e dello spazio, mentre il tempo scorre inesorabile, ne cambia l’aspetto e ne trattiene i segreti. Come per le pietre, sotto la Sila Grande, presso «la rupe sul Busento», ai piedi della quale, rammentava lo scrittore Giovanni Mario Morrone nell’omonimo romanzo, «una gente di passaggio ha sepolto uomini, ricchezze, verità».

Sempre a proposito di megaliti nella montagna silana, oggetto di attenzione da parte del Club Unesco di San Giovanni in Fiore, Basile, instancabile cercatore di documenti, leggende e memorie, ha riportato in vita il racconto della “Casa delle fate”, che, secondo la credenza popolare, era situata all’interno di un masso enorme, perfettamente squadrato, di circa 15 per 20 metri, ubicato presso San Giovanni in Fiore. Lì i passanti erano soliti poggiare l’orecchio su una parete e riferivano di sentire il rumore del telaio delle fate, intente a tessere la seta. Con la morte del proprietario del terreno, ha ricostruito Basile, gli eredi consentirono ad alcuni scalpellini di cavare quell’enorme masso, che dunque andò perduto. Ora, però, da un incontro tra due amici di vecchia data, entrambi sangiovannesi, Giovanni Piccolo, già funzionario della Soprintendenza di Cosenza, ex Sbap, e Giovanni Militerno, intellettuale operativo fra l’Alto Adige e la Renania tedesca, sta per nascere un’associazione che, come anticipa Piccolo, «intende censire, mappare e promuovere i megaliti della Sila ubicati nel territorio di San Giovanni in Fiore, carichi di fascino e mistero». Secondo Piccolo e Militerno, «il potenziale archeologico della Sila ha risentito di decenni di atteggiamenti speculativi, che hanno impedito ricerche scientifiche, attività divulgative e interventi di tutela e valorizzazione, ormai necessari, se vogliamo invertire la rotta».
I tempi sembrano dunque maturi per alimentare interesse e sinergie sulla Sila come miniera archeologica, per esplorarne la storia più antica e magari trovare delle connessioni con quella dell’ultimo millennio.

L’elefante e il guerriero (o ciclope) di Campana

Circa l’elefante e il guerriero o ciclope di Campana, l’ingegnere Nilo Domanico ne aveva verificato, nel corso di una recente spedizione, l’allineamento con la linea solstiziale. Al Corriere della Calabria, lo studioso aveva dichiarato: «Le prime suadenti luci dell’aurora hanno avvolto il sito con un’aura di misticismo e magia, catapultando il gruppo in un viaggio nel tempo fino ai primordiali albori della nostra civiltà, fino all’incanto del sole nascente, con i suoi abbaglianti riflessi sul mare, che iniziava a proiettare i suoi primi raggi sui due megaliti, proiettandone sulla Terra le loro ombre arcaiche ed ancestrali, penetrando nella fenditura tra l’Elefante ed il Gigante in perfetto allineamento. Il “miracolo” si è compiuto e noi ne siamo stati i testimoni».
L’allineamento dei monumenti con particolari corpi e linee celesti è un altro aspetto carico di fascino. La dotta Nicoletta Magnaghi, che con il compianto letterato Luigi Biafora consentì di scoprire il sito di Jure Vetere Sottàno insieme all’architetto Pasquale Lopetrone, narrò che la prima chiesa di Gioacchino da Fiore, lì ubicata, era stata costruita su preesistenze pagane. Magnaghi si soffermò, poi, sulla posizione di quel luogo di culto rispetto alla forma circolare della vallata in cui si trovano i resti attuali dell’edificio religioso.
Le tradizioni sapienziali si tramandavano: si insegnavano con rigore a chi poteva apprenderle e a sua volta trasmetterle. Oggi, nell’era dei Big data, della Quantum technology, dei social e della corrispondente esposizione universale, andrebbe recuperato sul campo tutto un insieme di conoscenze riflesso o espresso dai megaliti della Sila, in cui auspichiamo la nascita di un apposito parco archeologico diffuso, che potrebbe servire a proteggere, raccontare e valorizzare le pietre giganti dell’altopiano calabrese, fabbricate dall’uomo oppure dal tempo. (redazione@corrierecal.it)

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