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la riflessione

«I morti in custodia dello Stato»

Il nostro mondo opulento, distratto dai Media e dai Social, tende sempre più a rifuggire da ciò che è invece il destino di ognuno di noi: la fragilità

Pubblicato il: 08/08/2024 – 10:15
di Ennio Stamile*
«I morti in custodia dello Stato»

Una situazione che diventa sempre più drammatica quelle delle carceri italiane. Sono in continuo aumento i casi di detenuti che si tolgono la vita: ad oggi sono 61, uno ogni tre giorni. Oltre 600 sono le persone che, negli ultimi anni, hanno perso la vita in carcere. L’età media dei suicidi è di circa 40 anni, ma il bollettino mortale di quest’anno conta un ultrasessantenne e sei ragazzi. Nel recente focus del Garante dei detenuti emerge che circa una persona su due si è tolta la vita nei primi sei mesi di detenzione: di queste sei entro i primi 15 giorni, tre delle quali addirittura entro i primi cinque dall’ingresso. Solo il 38% dei morti risulta condannato in via definitiva.
Sempre secondo i dati resi noti dal Garante, sono 61.140 i detenuti presenti nelle carceri italiane: i posti regolarmente disponibili ammontano a 46.982, rispetto alla capienza regolamentare di 51.269, per un indice di sovraffollamento del 130,06% a livello nazionale. Sono 150 (pari al 79%) gli istituti con un indice di affollamento superiore al consentito che in 50 casi risulta superiore al 150%, con il picco record del 231,15% per l’istituto milanese di San Vittore.
Nel silenzio dei media, giorno dopo giorno, si sta consumando una vergognosa tragedia umana – denunciano gli avvocati dell’Unione delle camere penali –, si tratta di morti in custodia dello Stato, nel silenzio generale, senza che nessuna TV nazionale accenda i riflettori del Paese per sollecitare immediati interventi a un governo e a un parlamento distratti e insensibili rispetto al dramma delle carceri». Per questo l’associazione che riunisce i penalisti italiani ha promosso una “maratona oratoria itinerante” nelle piazze delle città italiane, da Nord a Sud, «per dare voce a tutti coloro che, dentro le carceri, non hanno più diritti». A rendere ancora più drammatica la situazione sono i diversi casi i cui un detenuto ha uno dei genitori con gravi disabilità. Se le barriere architettoniche sono difficili da abbattere nel nostro vivere quotidiano, per mancanza di sensibilità politica, figuriamoci nelle carceri.

carceri emergenza calabria

In questi giorni mi è capitato di ascoltare il caso del papà di Spanò Mattia, detenuto presso la Casa Circondariale di Catanzaro, affetto da gravi disturbi psichici che lo rendono incompatibile con qualsia forma di detenzione carceraria. Questo padre che fa i conti con una forma di grave disabilità che lo costringe, da molti anni ormai, a stare in una sedia a rotelle, nel mentre si recava a far visita al figlio si è rotta una ruota della sedia a Rotelle, finito quasi per terra, è stato costretto a raggiungere l’auto distante diverse centinaia di metri con le stampelle sotto un caldo davvero asfissiante. Prima di qualsiasi norma sulle barriere architettoniche, penso venga quella sana sensibilità verso le fragilità altrui, che rende tutti più umani e meno egoisti. D’altronde a fronte di una sempre più crescente fragilità, si registra paradossalmente una sempre maggiore disattenzione verso le persone fragili. Il nostro mondo opulento, distratto dai Media e dai Social, tende sempre più a rifuggire da ciò che è invece il destino di ognuno di noi: la fragilità. Alessandro D’Avenia molto opportunamente ci aiuta a riflettere su come la prima “arte da imparare in questa vita non è quella di essere invincibili e perfetti, ma quella di saper essere come si è, invincibilmente fragili e imperfetti”.  A fronte, dunque, dell’arte della forza, della perfezione, del tutto e subito, occorre imparare con urgenza l’arte di essere fragili, perché solo essa ci rende semplicemente più autenticamente umani, capaci di riconoscere le proprie e le fragilità altrui e con esse rendere anche i luoghi di detenzione più corrispondenti a quanto previsto dalla nostra Costituzione a proposito di quella pena, che deve sempre tendere alla rieducazione del condannato, non istigarlo al suicidio per la situazione disumana delle carceri».

*Rettore UniRiMI

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