Nelle notti lunghe e insonni, quando tornano tutti i miei defunti e rivedo i volti e le storie delle persone amate, incontrate e conosciute e provo a immaginare come sarà domani – perché domani ci sarà, comunque –, apro le Confessioni di sant’Agostino. Forse questo libro non mi ha aiutato nella mia sempre agognata e cercata conversione, ma mi ha insegnato a vivere diversamente, a interrogarmi sul mio rapporto con il tempo e con gli altri. La lezione essenziale e decisiva delle Confessioni è che quando scrivi – sia di finzione che di saggistica, sia lettere che email, sia di getto che in maniera accurata, sia a flusso che con tanti ripensamenti – l’unica cosa che non puoi fare è mentire a te stesso. Puoi, certo, mentire agli altri, puoi essere insincero, puoi scrivere con artificio cose in cui non credi; ma non puoi raccontarti menzogne, bugie, non puoi nascondere quello che senti e quello che provi: il lettore se ne accorgerebbe più di quanto tu possa immaginare, ma soprattutto tu, sapendolo, comprometteresti l’opinione che hai di te stesso. Nel mio piccolo, nella mia irrilevanza di autore, in un libro sulla nostalgia, faccio quindi la mia confessione in apertura del libro.Sono nostalgico. La nostalgia non è il sentimento degli anziani ma, come avrei letto in seguito, comincia da bambino, forse già appena na- sci, quando abbandoni l’acqua dell’utero o quando ti stacchi dal seno di mamma. Quella sensazione-emozione-sentimento-desiderio che poi avrei sentito definire come “nostalgia” appartiene al mio vissuto fin da piccolo. Avevo nostalgia di mio padre che era in Canada, nostalgia della ruga della Cutura, la casa dei nonni materni, quando la abbandonammo per tornare alla casa paterna della Papa: un breve viaggio fatto mille volte mi provocava un algos più stringente e opprimente di quello di Ulisse. La nostalgia aveva il volto dei compagni di scuola che partivano a centinaia e anche di quell’altrove chiamato Toronto che era un doppio del mio paese di origine e da dove, dopo le lettere di mio padre tra cui quella con la sua foto di quando era ammalato, arrivavano le missive struggenti di Vincenzo che mi chiedeva notizie del paese, dei compagni, di me, dell’origano, dei profumi e dei colori.Nei pomeriggi d’estate, dalla strada e dagli orti arrivavano i rumori dei compagni. Li distinguevo chiaramente fra le voci delle donne che chiamavano i figli piccoli, quelle degli uomini che tornavano con gli asini dalle campagne e quelle degli ambulanti che vendevano la loro merce. Il paese aveva i suoi suoni e i suoi colori, che ti abituavi a riconoscere fin dall’infanzia. Avrei voluto prolungare all’infinito quello stato di benessere che giungeva da una confusa, misteriosa lontananza. Sul mio letto, avvinto dal caldo e in guerra con le mosche, mi svegliavo con una sorta di struggente melanconia, con il sogno di un imprecisato altrove, con la voglia di andare, di partire. Mi svegliavo e sentivo il cuore che mi batteva, mi immaginavo in un altro posto e spesso mi vedevo partire e tornare dopo dieci anni. Era una nostalgia particolare e ineffabile, quella che mi prendeva quando ascoltavo mamma e da fuori arrivavano le voci degli amici. Ero nostalgico di ciò che era stato, e conoscevo attraverso i racconti e le storie del passato, e di ciò che doveva ancora venire, verso cui mi protendevo con l’immaginazione della vita futura. Dovevo sbrigarmi perché gli altri mi aspettavano per andare al fiume e nelle campagne, a prendere frutta e a giocare a nascondino tra alberi, grotte, pietre e dirupi, o a guerra tra soldati e indiani, sceriffi e banditi, tuttavia dovevo fare una fatica enorme per trovare un senso al mio essere lì. Immaginavo altri luoghi, ma tutto mi sembrava dolente e sgradevole e provavo a immaginare fughe e poi ritorni dove ormai nessuno più mi avrebbe conosciuto.
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