Pure che non piove, non li abbiamo più i contadini per coltivare la terra, ci piantano pale e pannelli che mangiano sole e vento, l’aridità è grasso che cola. Siamo più Messico che Grecia perché fingiamo di essere arrivati prima di loro: saranno sempre gli altri a somigliarci, mai il contrario. Abbiamo bruciato regni, democrazie, dittature e rivoluzioni. Viviamo un medioevo anarchico dissetato da vino schietto e tequila , speziato dal tabasco e dall’origano. Primi a capire che lo sforzo della filosofia serve ad aprire spazi all’ozio: spicchi d’arancia nel piatto e costolette di fico d’india sulla brace. È bello scottarsi le dita solo per averne poi il sollievo di un rinfresco. Non fare nulla è il nostro orizzonte, per farcelo dimenticare ci costringono a lavorare come muli portandoci lontano fra acquitrini governati da rane. Ma quando il sole di luglio irrompe invadiamo con calma le statali in discesa, uno alla volta, dividiamo le giornate fra pomeriggi d’ ombra e notti di convulsioni musicali, saltiamo le mattine e le sere, cancellandole per mesi. Mettiamo sugli altari Pancho Villa e Pitagora e ci facciamo imboccare con cetrioli e cactus a fette. Risaliamo le montagne attraverso le fiumare quando il sole è altissimo. Spossati ci lasciamo rotolare verso un mare qualunque, verso un qualunque amore, disposti ad eterogenee congiunzioni carnali.
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