Il paese dei “paesani: non dei rovinologi e degli esteti e, nemmeno, dei suoi detrattori. I paesi hanno, non da oggi, i loro nemici, i loro detrattori. Sono pesi morti per la modernità. Prosperano da sempre posizioni urbanocentriche, che li considerano luoghi di arretratezza e di barbarie, di primitività, aree da svuotare e di cui accelerare la fine, a favore di città o metropolitane, spesso invivibili. In molti, in fondo, ne praticherebbero volentieri l’eutanasia. D’altro canto, negli ultimi tempi, si sono affermate tante concezioni esterne e interne neoromantiche ed estetizzanti dei paesi come luoghi mitici pacificati, puri, incontaminati. Il paese è un borgo astorico, dove trovare sacralità, lentezza, vita sana. L’idea di trasformare questo mondo in una «astrazione vetrificata», in un borgo musealizzato, mummificato, in un paese-merce in cui le case valgono un euro e la memoria vale zero a molti appare una soluzione. Gli slogan di maniera, le retoriche lacrimevoli di nuovi compiaciuti e distratti rovinologi non creano consapevolezza e tanto meno nuova vita. Mentre i paesi si svuotano, qualcuno giunge a profetizzare che, a breve, saranno iperaffollati. Queste teorie non sono il prodotto di un’invenzione utopica o distopica, spericolata, ma semplicemente rinascono rinverdendo i peggiori stereotipi. Questa «idea» di paese si presta bene ad ambientare «storytelling» – praticamente invenzioni – di autori di pochi scrupoli, sia in ambito saggistico che letterario. I paesi, stanchi, offrono scarsa resistenza, sia a chi li descrive come il regno delle peggiori bassezze umane(ingiurie, odî, liti, maldicenze) sia a chi, al contrario, li rappresenta come Eden, come scenari arcadici, sacralizzati, dove tutti dovrebbero tornare. Indipendentemente da ciò che si pensa dei paesi, lascia sgomenti sentire consigli di questo tenore: fuggite dai paesi, restate nei paesi, tornate nei paesi. Non si tratta di analisi, di valutazioni, ma al massimo di immagini dettate dallo stato d’animo, dalla visione dei loro autori, lontani dalla realtà dei fatti e di ciò che pensano davvero le persone. Gli abitanti, di fronte a tanta perentorietà e saccenteria, di fronte a questi consigli non richiesti, si irrigidiscono, accentuano la loro diffidenza nei confronti di quanti emettono sentenze, dall’alto o da fuori, senza serie argomentazioni e senza partecipazione. Ed è un peccato, perché i paesi avrebbero bisogno di sguardi attenti e proposte lucide, di sostegno e collaborazione, non di turisti distratti e di passaggio, di esteti delle rovine che attendono, indifferenti, la fine di un mondo, che non è il loro. Esiste per fortuna, accanto a queste posizioni narcotizzanti, che oscillano tra eutanasia e accanimento terapeutico, un variegato movimento di «restanti» e di «tornanti» che, nelle varie parti d’Italia, fanno una scelta di vivere diversamente, vogliono affermare nuove relazioni e nuovi rapporti, si impegnano per arrestare lo spopolamento e per dare un nuovo senso a luoghi resi marginali, vuoti, desertificati e invivibili da scelte politiche economicistiche, classiste e urbanocentriche.
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