Dopo l’arresto di Matteo Messina Denaro, Teresa Principato, procuratrice aggiunta di Palermo, dichiarò che il latitante aveva avuto una rete di protezione di carattere massonico in tutto il mondo. Allora il Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia (Goi, nda), Stefano Bisi, commentò all’Adnkronos: «I magistrati fanno riferimento alla massoneria cosiddetta “deviata” e non alla massoneria ufficiale». Le parole sono importanti, sentenziò Nanni Moretti nel film “Palombella rossa”, nei panni del protagonista Michele Apicella. Da procuratore di Vibo Valentia, Mario Spagnuolo disse che nella stessa città calabrese c’erano «diverse logge coperte». Deviazioni e coperture sono una vecchia questione in tema di massoneria, ancora irrisolta, intanto sul piano normativo. A Castelvetrano (Tp), “feudo” di Messina Denaro, al momento della sua cattura risultarono sei logge attive sulle 19 della provincia di Trapani. Peraltro, al Grande Oriente d’Italia era iscritto il medico di Campobello di Mazara (Tp) Alfonso Tumbarello, sotto processo con l’accusa d’aver redatto oltre 130 certificati intestati ad Andrea Bonafede ma per conto di Messina Denaro, allora sotto cure oncologiche. Campobello di Mazara conta poco più di 11mila abitanti e deve il proprio nome a un violento conflitto tra segestani e selinuntini prima del 409 a. C.. Ma c’è un altro episodio che riguarda questo luogo, affacciato a sud verso Pantelleria e la Tunisia. Agli inizi degli anni Novanta, il massone Massimo Maggiore segnalò all’allora Gran Maestro del Goi, Giuliano Di Bernardo, diverse infiltrazioni di mafia nelle logge di Campobello di Mazara. E questo fu un motivo, come vedremo, che portò Di Bernardo a dimettersi nel 1993, a seguito della deflagrante inchiesta su criminalità organizzata e massoneria coordinata dal procuratore di Palmi dell’epoca, Agostino Cordova, scomparso nello scorso agosto. In particolare, lo stesso Gran Maestro scelse di collaborare con la magistratura dopo aver verificato, come leggerete più avanti, l’impossibilità di ripulire il Goi dalle troppe incrostazioni. Poco prima del Natale del 2017, fu approvata la relazione della Commissione bicamerale Antimafia, presieduta da Rosy Bindi, sulle infiltrazioni della mafia e della ’ndrangheta nella massoneria tra Sicilia e Calabria. Nel documento figura, a proposito degli elenchi acquisiti relativi a quattro logge, che i massoni indagati per mafia erano 193, in gran parte professionisti, dipendenti pubblici e imprenditori, dei quali 31 condannati in via definitiva o con procedimenti in corso per associazione mafiosa o altri reati gravi. Quella Commissione si trovò di fronte al rifiuto di consegnare gli elenchi degli iscritti, che dovette sequestrare con riferimento a quattro logge delle suddette regioni del Sud. Nell’atto parlamentare sono evidenziate forti criticità: l’inadeguatezza dei controlli preventivi adottati dai vertici delle logge massoniche; in alcuni casi mancanza di provvedimenti nei confronti di iscritti condannati per reati gravi; la «segretezza strutturale» di alcune logge e una «supremazia riconosciuta alle leggi massoniche rispetto a quelle dello Stato». La relazione della Bicamerale indica anche dei correttivi, finora non considerati dal legislatore: la definizione di una disciplina più rigorosa sulle associazioni segrete; l’aumento delle sanzioni; la possibilità di scioglimento delle logge da parte del prefetto; l’obbligo per gli incaricati di pubbliche funzioni e per i dipendenti pubblici di dichiarare l’appartenenza ad associazioni che, pur non essendo segrete, impongano vincoli agli iscritti incompatibili con l’esercizio di una funzione pubblica; la verifica periodica del rispetto di tale norma a opera della singola Amministrazione.
Di recente, e ne ha scritto Paride Leporace sul Corriere della Calabria (qui il link), nel Grande Oriente d’Italia è esplosa una lotta interna riguardo all’elezione del Gran Maestro, finita sotto la lente della XVI sezione civile del Tribunale di Roma, che ha riconosciuto il candidato romagnolo Leo Taroni come il legittimo Gran Maestro, sospendendo l’efficacia della proclamazione del calabrese Antonio Seminario. Tuttavia, la decisione è ancora impugnabile. Che cosa sta succedendo all’interno del Goi, che è la più numerosa obbedienza massonica italiana e in cui gli iscritti della Calabria hanno acquisito nel tempo un peso rilevante in maniera legittima? L’abbiamo chiesto al professore Giuliano Di Bernardo, classe 1939, filosofo, sociologo, Gran Maestro dello stesso Grande Oriente d’Italia dal 1990 al 1993 e poi fondatore della Gran Loggia Regolare d’Italia. Di Bernardo lasciò il Goi perché, sostiene, «era impossibile sanare la situazione», come confidò al già presidente della Repubblica Francesco Cossiga, dopo la conclusione delle indagini della sconvolgente inchiesta del procuratore Cordova. All’interno del Grande Oriente d’Italia c’erano infiltrazioni – racconta il massone al Corriere della Calabria – che gli erano già state anticipate a Vienna da alti esponenti della massoneria europea, destinatari di informazioni riservate, forse di sentori e sospetti pervenuti tramite apparati di intelligence e ambasciate. Di Bernardo precisa che Cordova gli dimostrò la «fondatezza assoluta» delle ipotesi investigative. E aggiunge che il Goi dovrebbe risolvere al suo interno le aspre contrapposizioni emerse tra le fazioni di Taroni e Seminario, senza attendere le pronunce della magistratura. In caso contrario, secondo il nostro interlocutore, la stessa istituzione massonica potrebbe perdere il proprio riconoscimento in ambito internazionale, «e allora sarebbe finita». Affiliato al Goi fu il poeta Giosuè Carducci. Anche Licio Gelli e il banchiere Roberto Calvi ne fecero parte tramite la loggia P2. La recente vicenda, ancora aperta, del Grande Oriente d’Italia può rappresentare un’occasione per rilanciare l’Obbedienza e l’intera massoneria italiana, preservandole da infiltrazioni mafiose e da ombre che le ultime due Commissioni parlamentari Antimafia, avverte Di Bernardo, «non hanno purtroppo dileguato»?
«La campagna elettorale per l’elezione del Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia si è svolta regolarmente. Il Comitato elettorale nazionale (Cen, nda) ha presentato le sue conclusioni – premette Di Bernardo – circa il candidato eletto. Contrariamente a ciò che ci si aspettava in base ai risultati elettorali, il Cen ha dichiarato vincitore Antonio Seminario. Di conseguenza, il Gran Maestro Stefano Bisi ne ha fatto la proclamazione, come previsto dai Regolamenti del Grande Oriente d’Italia. Questo è ciò che è avvenuto. La Lista numero 1 di Taroni non ha accettato tale situazione e adottato una serie di decisioni che io analizzerò per proporre poi ciò che avrei fatto io se fossi stato al suo posto».
Che cosa è poi successo?
«Secondo me, il primo errore di Taroni è stato quello di non salire sul cavallo nero focoso e guidare i suoi seguaci contro l’usurpatore. Ma lui è scomparso, si è fatto ricoverare in una clinica e ha detto ai suoi fedeli: “Andate in Gran Loggia e vogliatevi bene”. Che significa? Che cosa è successo? Che la Lista numero 1 è andata in Gran Loggia e ha votato a favore della proclamazione di Seminario. Questo per me è incomprensibile. Ancora oggi mi chiedo come ciò possa essere avvenuto. Se io non sono d’accordo con la proclamazione di Seminario, posso fare due cose: non andare in Gran Loggia o andarci e votare contro. Ma, se vado in Gran Loggia e voto a favore, è assurdo. A meno che non vi sia una strategia che lo giustifichi. Ma quale strategia? Se c’è, non è mai apparsa».
Seminario è stato regolarmente proclamato Gran Maestro.
«Sì. E la lista Taroni, secondo le leggi italiane, avrebbe avuto alcuni giorni di tempo per impugnare la proclamazione. Invece, vi è stato un silenzio assordante. Qual è la strategia che lo giustifica? Questo è ciò che è avvenuto».
E lei che cosa avrebbe fatto?
«Io non sarei andato in Gran Loggia. Seminario sarebbe stato eletto da una maggioranza risicata e questo avrebbe avuto un impatto fortissimo nelle Segreterie delle Massonerie estere. Invece, ancora una volta vi è stato un silenzio incomprensibile, quasi a voler dire che la cosa ci riguarda ma deleghiamo la magistratura civile a risolvere il nostro problema. Da quel momento comincia la confusione universale. Taroni e componenti della sua maggioranza, in ordine sparso, si appellano all’autorità civile. Io mai vi avrei fatto ricorso, in quanto ciò significa avviare un procedimento che può portare all’estinzione del Grande Oriente d’Italia. Quando – oltre 30 anni fa – mi sono ritirato dal Goi scrivendo una pagina di storia massonica, mai mi sarei sognato di chiedere l’aiuto del magistrato civile. Il problema c’era e l’ho risolto all’interno della massoneria».
Morale?
«Questo è ciò che non vogliono capire oggi: la massoneria è un ordine esoterico e iniziatico, e i suoi problemi vanno risolti all’interno con la collaborazione delle massonerie straniere. Ai miei tempi sono andato prima a parlare con i vertici delle massonerie importanti, ho fatto capire la situazione e il mio progetto e, solo quando ho avuto un loro consenso, ho agito all’interno del Grande Oriente d’Italia cambiando lo stato di cose esistente».
Perché secondo lei? Che idea si è fatto rispetto a questo tipo di scelta?
«Vuole che glielo dica? La paura, che è stata determinante. Questi hanno avuto tutti paura, ed è una cosa miserevole. Se si fa una guerra, bisogna scendere in campo e rischiare di riportare ferite o di essere uccisi. Però, se perdi, sei morto con onore. Questo è quello che penso io».
E ora?
«Si è innescato un meccanismo che ci fa assistere attoniti a questo balletto: viene proclamato Seminario, Seminario non è più Gran Maestro, ritorna Bisi, ritorna Seminario, si fa opposizione al suo ritorno, ci sarà qualche magistrato che forse lo riporterà fuori e così all’infinito. E allora? Perché non cerchiamo di fermare questa assurda follia?».
Sta facendo un appello?
«Ora mi giunge notizia che in Lombardia si vorrebbe denunciare tutti gli organi del Grande Oriente d’Italia. È mai possibile che non ci si renda conto che ciò significherebbe creare le premesse della demolizione dell’Obbedienza? Io vedo due parti in conflitto che reciprocamente operano per la distruzione dell’altra. Una guerra senza quartiere, dove prevale la sindrome di Sansone: “Muoia Sansone con tutti i Filistei”!»
Con quali sviluppi possibili?
«Se, per caso, in seguito a tutti questi ricorsi, i magistrati decidessero di mandare un commissario straordinario, allora sarebbe con certezza la fine di tutto, perché avrebbero il dovere di verificare ciò che si sta denunciando oggi. E, se è vero quello che si sta denunciando, a quel punto non ci potrà essere che una sola conclusione: quel commissario dovrà chiedere la chiusura del Grande Oriente d’Italia. È questo ciò che si vuole?»
Quando lei parla di denunce, a che cosa fa riferimento?
«A irregolarità non solo elettorali ma anche di corruzione, infiltrazione di organizzazioni criminali, malagestione eccetera. Subito dopo la proclamazione di Seminario, scrissi un documento che intitolai “Consummatum est” (“Tutto è finito”, nda), in cui anticipavo tutto quello che sarebbe successo dopo e che sta ancora succedendo. Ora, se questa è la situazione, che cosa farei io oggi? Ci troviamo di fronte a un dilemma: lasciare che le cose seguano il loro corso o fare qualcosa per evitarlo. A mio avviso bisogna essere realisti. Il “cupio dissolvi” deve essere l’estrema e inevitabile conclusione, ma dopo aver tentato le vie della ragione. Ciò significa le due parti in causa si dovrebbero trovare per cercare una soluzione che possa salvare il Grande Oriente d’Italia da un destino che ormai sembra già scritto».
«Irregolarità» però presunte sino a prova contraria. Quali sono le parti realmente in causa?
«Vede, io qui sono il filosofo, il sociologo, se vuole il Gran Maestro che osserva questi fatti dall’esterno senza alcuna partecipazione emotiva. Quali sono le parti in causa? Volente o nolente, non v’è dubbio che la Calabria in questi decenni ha rafforzato il suo potere fino a essere uno Stato nello Stato. Quindi, se si vuole trovare un’intesa bisogna allora partire da loro. Bisi non può (né deve) essere l’interlocutore, perché è il vero responsabile di questo disastro. Bisi è fuori. Quindi, se al tavolo della trattativa deve sedere la Calabria, la Calabria significa Bellantoni (Ugo, gran maestro onorario del Goi, nda). Bisogna che si crei un’occasione d’incontro che abbia come rappresentante della parte calabrese chi realmente rappresenta la Calabria, e questo è Bellantoni».
E l’altra parte qual è?
«Si fa presto a dire la Lista numero 1 di Taroni, ma quella lista è frantumata e ha all’interno delle componenti, molto importanti, che agiscono anche indipendentemente dalla volontà di Taroni. Faccio riferimento ai milanesi, i quali costituiscono un gruppo autonomo all’interno della Lista numero 1 e vedono la soluzione del problema in maniera diversa da Taroni. E quindi chi dovrebbe essere il rappresentante di questa lista che si incontra eventualmente con Bellantoni? Dovrebbe essere Taroni dopo aver fatto una verifica al suo interno».
Che cosa potrebbe succedere?
«Secondo me nulla perché, quando si andrà a porre il problema di chi farà il Gran Maestro, tutto si bloccherà. Però un tentativo si dovrebbe fare. Io ritengo che l’esercizio della buona volontà sarebbe visto bene anche dalle massonerie straniere, che stanno guardando con preoccupazione ma si stanno già preparando a ritirare il riconoscimento al Grande Oriente d’Italia, nel caso che il tentativo fallisse. Un Grande Oriente d’Italia, senza i riconoscimenti delle Massonerie estere, non avrebbe più alcuna ragione di esistere. Se non si batte un colpo, nei prossimi mesi la Massoneria inglese e quella statunitense ritireranno i riconoscimenti, e poi a cascata lo faranno anche le altre Massonerie».
Ha detto che la Calabria nel corso degli anni ha acquisito sempre più importanza nel Goi, immagino in termini di peso elettorale. Perché, secondo lei?
«Perché i calabresi volevano emergere e chi poteva arrestare la loro affermazione non l’ha fatto. All’interno di ogni organizzazione, vi sono gruppi che vogliono dominare. All’interno del Grande Oriente d’Italia, i calabresi hanno visto la possibilità di rafforzare il loro gruppo e lo hanno fatto. Tutto questo, in un regime democratico, è permesso ed è normale».
Lei ha auspicato una trattativa tra Taroni e Bellantoni, però poi si è detto scettico sulla riuscita, dato il nodo del futuro Gran Maestro.
«È come la vedo io, però può darsi che loro trovino il modo per superare questo ostacolo. Io una soluzione l’avrei ma preferisco tenerla per me. Se le parti in causa trovassero il modo per uscire da questa impasse, io potrei contribuire per riportare nel Grande Oriente d’Italia la Tradizione iniziatica, che da tempo è stata smarrita. Sempre se sarò ancora in vita».
È una logica da partito?
«Il Grande Oriente è un partito perché non è più una società iniziatica. Anzi, è ancora peggio: in un partito una soluzione si troverebbe, ma qui esistono due parti che si odiano in maniera così viscerale che non si saprebbe come trovare un’intesa. E, anche se si trovasse un’intesa al vertice, il problema non sarebbe affatto risolto, perché resta la base spaccata e dilaniata: all’interno delle logge si sono formate due parti che si odiano in maniera viscerale e, paradossalmente, continuano a chiamarsi “fratelli”».
Che cosa determina quest’odio, una nebbia di potere?
«Il potere riguarda i vertici, quelli che poi ne traggono vantaggio. Ma nelle logge ci sono massoni, schierati a favore dell’una o dell’altra, con la consapevolezza di essere nella verità, che difendono come i fedeli crociati. Che tristezza!»
Roba da tifoseria calcistica?
«Una cosa del genere. Questo, purtroppo, oggi è il Grande Oriente d’Italia. Io ne intravidi, oltre 30 anni fa, la degenerazione futura e cercai di porvi rimedio con il mio progetto “Trasparenza”. Se allora mi avessero ascoltato, invece che cercare di defenestrarmi, oggi questo disastro non ci sarebbe».
Facciamo un salto alla famosa inchiesta Cordova, poi lei si dimise nel ’93 dal Grande Oriente. Che cosa le è rimasto di quella storia?
«Ufficialmente, io mi dimisi dal Grande Oriente d’Italia perché Ettore Loizzo mi aveva informato, riguardo alla Calabria, di infiltrazioni da parte della ’ndrangheta. Prima ancora, il siciliano Massimo Maggiore mi aveva invece informato di infiltrazioni da parte della mafia, a Campobello di Mazara. Allora diedi questa motivazione delle mie dimissioni. Ma ve ne fu un’altra, molto più importante, che riguardò la massoneria europea e statunitense. Quando ci fu nel 1992 la celebrazione a Londra del 250esimo anno della fondazione della Gran Loggia di Londra, cui partecipai, venni convocato da una ventina di Gran Maestri di Gran Logge europee e statunitensi. Da Londra andai a Vienna e lì mi dissero che avevano la certezza che in Italia si sarebbe a breve verificato un evento più catastrofico della P2, riguardante le infiltrazioni delle organizzazioni criminali. Me lo dissero affinché io potessi fare tutto il possibile per evitarlo, sottolineando il fatto che la Massoneria mondiale ne avrebbe sofferto».
Questo era un riferimento anticipato all’inchiesta di Agostino Cordova?
«Certo, questo avvenne alcuni mesi prima che iniziasse l’inchiesta di Agostino Cordova. Io che cosa feci? Convocai la Giunta del Grande Oriente e la informai di quanto mi era stato detto a Vienna. Non mi credettero e iniziarono contro di me una guerra che doveva portare alla mia defenestrazione. Ma io vinsi la guerra contro di loro, rimasi Gran Maestro e poi me ne andai, sapendo che la mia era stata la vittoria di Pirro e che ben presto avrebbero ripreso le ostilità contro di me. Quindi, le ragioni per cui ho lasciato il Grande Oriente erano molto gravi, serie e profonde. A me i Gran Maestri avevano chiaramente detto la verità: avevano informazioni riservate sul Grande Oriente d’Italia tramite i Servizi, le ambasciate e altri canali. E mi avevano raccomandato di fare tutto il possibile per evitarlo. Queste sono le ragioni per cui mi sono dimesso dall’Obbedienza che mi aveva dato i natali massonici e che aveva plasmato gran parte della mia vita. Tutto ciò che sta avvedendo oggi è la riprova più evidente che allora io ero nel vero, come spero che i magistrati dello Stato confermeranno».
Lei provò dunque a riformare la massoneria dall’interno. Ma poi?
«Fu impossibile. Allora il presidente Cossiga mi disse che avevo la grande occasione di eliminare le mele marce. Io gli risposi che sarebbe stato più semplice tagliare la pianta e innestarne un’altra. Feci proprio così e diedi all’Italia la Gran Loggia Regolare d’Italia».
E come si comportò con il procuratore Cordova?
«Quando andai da Cordova la prima volta, avevo l’intenzione di farmi perfino arrestare, per difendere il Grande Oriente d’Italia. Ma quando Cordova mi dimostrò in maniera evidente l’esistenza di infiltrazioni, non me la sentii più di difenderlo. Le raccomandazioni di Ettore Loizzo e di Massimo Maggiore e le informazioni dei Gran Maestri a Vienna trovavano una conferma in Cordova. Convocai la Giunta ed Ettore Loizzo lo ammise e disse: “Sì, Cordova ha ragione”. In quel preciso istante, decisi di dimettermi e alcuni giorni dopo ero a Londra dai vertici della Massoneria inglese».
Disse a Cordova che era già stato avvertito a Vienna?
«No. Cordova “giocava” nel suo ambito, con le sue regole. Da lui appresi fatti che erano la conferma di quanto mi avevano detto a Vienna».
In che cosa si sostanziò la sua collaborazione con Cordova?
«Dopo l’incontro con la Giunta e le dichiarazioni di Loizzo, mi sentivo come Don Chisciotte contro i mulini a vento. Allora decisi di ritirarmi e di fornire a Cordova le informazioni che avevo acquisto sulle infiltrazioni e su altre questioni importanti che riguardavano la vita del Grande Oriente».
L’idea dell’opinione pubblica sulla massoneria è in generale negativa, specie a seguito delle coperture massoniche che Matteo Messina Denaro avrebbe avuto nella sua latitanza. Come vede il futuro della massoneria italiana, anche pensando al caso della P2, allo stragismo, all’inchiesta di Cordova e, del tutto a parte, alle recenti liti di potere nel Goi?
«Io vedo un piano generale. Più che tragica, la vedo realisticamente: dobbiamo prenderne atto. Ciò che manca ai magistrati che indagano sulla Massoneria è la visione dell’insieme. Loro considerano tanti pezzi separati l’uno dall’altro. Ma, se non riescono a vedere ciò che li unisce, non andranno mai nella direzione giusta e le verità resteranno sempre nascoste».
Allora li vuole “aiutare” a trovare il filo che unisce tutte queste vicende?
«Domando a lei: quali magistrati?»
Teniamo da parte i magistrati. Lo indichi lei il filo che lega i fatti prima ricordati.
«Ho cominciato alcuni anni fa con le mie testimonianze presso la Commissione Antimafia, prima con quella presieduta da Rosy Bindi, poi con quella presieduta da Nicola Morra. Ho iniziato richiamando l’attenzione sulla P2: ho detto che, se non si fa chiarezza sulla P2, molti fatti che riguardano non solo la massoneria, ma anche lo Stato italiano, resteranno nell’ombra, nel mistero. Non v’è dubbio che la P2 è una creazione della Cia, insieme a Gladio e alla Nato. Gelli non era il massone che usava in maniera deviata il Grande Oriente d’Italia. Gelli era stato delegato dai Gran Maestri del Grande Oriente d’Italia a rappresentarli nel governo della P2, che era la loggia del Gran Maestro. Quindi tutto ciò che Gelli ha fatto con la P2, l’ha fatto con il consenso del Gran Maestro. Altro che loggia deviata!»
Se leggiamo alcuni punti del Piano di rinascita democratica, troviamo, per esempio, la separazione della responsabilità politica da quella amministrativa, poi avvenuta nel ’97. Ancora, troviamo la trasformazione delle università italiane in fondazioni di diritto privato, possibilità introdotta dalla legge nel 2008. Poi troviamo sgravi fiscali per favorire il ritorno di capitali all’estero, e scudi del genere ce ne sono tanti. Troviamo, inoltre, l’abolizione delle Province, la riforma del mercato del lavoro e la riduzione del numero di parlamentari, tutte avvenute. E troviamo la separazione delle carriere dei magistrati, che è in corso. Quando lei dice che, se non ritorniamo alla P2, non capiamo i fatti successivi, fa riferimento anche al Piano di rinascita democratica o intende perfino altro?
«Intendo anche altro. Il Piano di rinascita democratica è un tassello all’interno di un mosaico più ampio».
Partiamo dal tassello e poi parliamo del mosaico più ampio. I fatti richiamati nella mia domanda sono solo coincidenze, al di là dei posizionamenti politici le varie maggioranze di governo hanno tradotto in concreto quel Piano oppure fu bravo Gelli a indicare lo sviluppo dell’organizzazione pubblica?
«No, Gelli seguiva le istruzioni del governo statunitense attraverso la Cia. La P2 era un suo braccio per il controllo dell’Italia e dell’Europa, per difenderle da un eventuale attacco dell’Unione Sovietica. Quindi, il ruolo svolto da Gelli non è marginale o deviato, ma è un ruolo ben preciso, esercitato in collaborazione con altre istituzioni che tendevano verso lo stesso scopo. C’è stato un momento in cui gli Stati Uniti volevano l’autonomia della Sicilia per farne una loro sede nel Mediterraneo, di loro esclusiva proprietà. E la P2 è parte di questo progetto: è qui che si manifesta il rapporto della P2 con la mafia, che partecipa a questo progetto».
Questo progetto di libera disponibilità della Sicilia da parte degli statunitensi, per riassumere il suo pensiero, comprendeva anche la trattativa fra Stato e mafia, confermata dalla Cassazione?
«Quella è una fase secondaria, ma vi rientra. È già una fase successiva quasi degenerativa. Io sto parlando del momento più importante, in cui si viene a creare un sincretismo tra una parte dello Stato italiano, la mafia, la P2 e il governo americano. È da qui che i magistrati dovrebbero partire per capire i rapporti tra mafia, Stato e Massoneria in Sicilia».
Morra che cosa le disse quando gli espose queste considerazioni?
«Che erano interessanti, però nella Commissione Antimafia non c’era l’intenzione a prenderle in considerazione. Io ho la documentazione di questo e ho sempre chiesto se ci sia un magistrato o un giornalista disposto a portare avanti questa inchiesta. Nessuno ha mai risposto».
In questo disegno geopolitico del potere statunitense, per riprendere la sua esposizione, come si innesta poi la Calabria?
«La Calabria viene coinvolta in questo progetto da Gelli, che riorganizza praticamente le famiglie della ’ndrangheta e le mette alla sua obbedienza. Io sono convinto che, se noi potessimo vedere il vero elenco della P2, ci troveremmo tutti i vertici dei clan calabresi e siciliani».
Lei crede che vi sia stato un assoggettamento della mafia e della ’ndrangheta da parte della P2, quindi da parte della Cia, funzionale a concentrare l’attenzione su alcuni aspetti della criminalità in modo da esercitare un controllo strategico nei territori della Sicilia e della Calabria?
«Noi dobbiamo vedere il mosaico nella dimensione diacronica. C’è stato il momento aureo in cui lo Stato, la Cia, la mafia e la P2 collaboravano per rendere autonoma la Sicilia. Gelli vi ha contribuito riorganizzando la mafia e la ’ndrangheta. Le cose poi sono cambiate perché gli Stati Uniti hanno rivolto altrove il loro interesse. E questo è tipico degli Stati Uniti. Prima hanno avviato le procedure per raggiungere il loro scopo, poi hanno detto di non essere più interessati, mettendo in crisi la P2, la mafia e lo Stato. Quella parte dello Stato è costituita dalla destra del fascismo che si è riciclata nella Repubblica occupandone i vertici strategici. Quella destra che ha cercato di ostacolare con tutti i mezzi l’attuazione dello Stato democratico, collaborando con la Cia, la P2, la mafia e i vertici della Massoneria. Questo centro di potere è responsabile delle stragi e dei più efferati omicidi, come quello di Aldo Moro».
E oggi?
«Oggi ci si ritrova in una situazione di maggiore conflittualità perché non c’è più una destra forte che cerca di mantenere uno stile di vita diverso da quello proposto dalla sinistra. Oggi si sta creando uno stato di anarchia che sale sempre più e che distrugge o rende più debole la democrazia».
Sulle infiltrazioni mafiose nella massoneria e sulla trasparenza delle logge, che risultati hanno raggiunto, secondo lei, le due precedenti Commissioni antimafia, una presieduta da Nicola Morra e la precedente da Rosy Bindi?
«La Commissione Bindi è riuscita a mettere mano sugli elenchi del Grande Oriente d’Italia. Però questo lo fa alla fine del suo mandato. La Commissione, pertanto, non ha avuto la possibilità di approfondire il materiale acquisito. E questo è il fatto più grave. Poi arriva la Commissione Morra, che però non ha la forza di riprendere le conclusioni della Commissione Bindi. Per ammissione dello stesso presidente, si fa addirittura fatica a convocare le sedute per indagare sulla massoneria. La Commissione Bindi aveva la volontà ma non ha avuto il tempo di completare l’indagine, la Commissione Morra aveva il tempo ma non ha avuto la volontà». (redazione@corrierecal.it)
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