VIBO VALENTIA Avrebbe continuato a gestire gli affari della cosca direttamente dal carcere, anche dopo Rinascita Scott, utilizzando cellulari introdotti illegalmente e grazie al supporto delle persone rimaste fuori. C’è anche Antonio La Rosa, boss dell’omonima cosca di Tropea, fra i 10 arrestati nell’operazione “Call me”, condotta stamattina dalla Guardia di Finanza e coordinata dalla Dda di Catanzaro contro alcuni esponenti della ‘ndrangheta vibonese. Alcuni di loro già detenuti in carcere, ma in costante contatto con l’esterno grazie a smartphone e cellulari: circa 30 mila le telefonate captate dagli inquirenti nell’arco di pochi mesi con un ruolo particolare ricoperto dalle donne della famiglia, come sottolineato nella conferenza stampa tenuta dal Procuratore Salvatore Curcio.
Anche dopo Rinascita Scott, la maxioperazione scattata a dicembre del 2019, Antonio La Rosa avrebbe continuato a gestire gli affari del clan, in particolare grazie al supporto della moglie Tomasina Certo, arrestata, e a quello del genero Davide Surace, 40enne di Spilinga. Sarebbe stato proprio quest’ultimo «il prediletto» per la gestione degli affari durante la detenzione del presunto boss di Tropea, condannato a 24 anni di carcere nel primo grado di Rinascita. Dalle indagini sarebbe emerso come La Rosa «facesse regolamenti uso di 6 dispositivi cellulari e 5 sim», intestati a varie personalità straniere. Alcuni di questi telefoni sarebbero stati condivisi con altri detenuti, tra cui Luigi Federici, già arrestato in Rinascita e coinvolto anche nell’operazione odierna. Tra il 22 ottobre 2020 e il 21 maggio 2021 vengono censite «un totale di 4.709 telefonate» tra l’indagato e i familiari, tra cui la moglie, la figlia Cristina La Rosa e il marito Davide Surace. Per gli inquirenti è «disarmante» la semplicità con cui «La Rosa teneva e fissava appuntamenti telefonici».
Tema centrale delle chiamate sono le sorti della consorteria criminale in seguito all’inchiesta del dicembre 2019, che di fatto aveva mutato gli equilibri del territorio. Da La Rosa sarebbero arrivate «indicazioni a moglie e genero in particolare sulla gestione degli affari della cosca, come i rapporti con i terzi, la riscossione di denaro, il sostentamento suo, della famiglia e i pagamenti dovuti ai difensori». Dalle indagini sarebbe poi emersa la preoccupazione del presunto boss in seguito alla maxi-retata, tanto da specificare «a Surace a gran voce la necessità che lui stesse attento, non si esponesse, restasse a curare solo la sua famiglia». Sul genero vertevano tutte «le sue speranze» dal momento che «se avesse anche lui avuto problemi ‘rimaniamo in mezzo ad una strada’». Un costante timore delle operazioni delle forze dell’ordine, tanto che un comportamento poco “attento” di Surace sarebbe stato deleterio perché «siamo rovinati dopo». (ma.ru.)
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