Le riconosco subito da lontano, il colore arancio intenso, le foglie, la consistenza. Una bella esposizione di clementine, anche il prezzo mi sembra conveniente. Siamo in un punto – diciamo – alle falde del Vesuvio, in un’area dove l’agricoltura dice la sua, ci sono mercati che servono tutta l’Italia e ci sono anche distese di agrumi. Ma sia le arance sia i mandarini in questo periodo in Campania non sono dolcissimi, poi hanno i semi, non che sia un problema ma la sfida con la Sicilia e la Calabria è veramente difficile. Allora, la storia del nostro fruttivendolo. Mi avvicino e vedo un cartello scritto a mano: clementine pugliesi. Vanno a ruba, “provatele” mi invita il venditore. Per un attimo cerco di geolocalizzare mentalmente l’area di coltivazione in Puglia e vado un po’ in confusione, penso al Tarantino che gira nel Metapontino, in Basilicata, per poi scendere verso lo Jonio calabrese. Ma è un attimo, controllo sul cellulare, mi aiuta l’intelligenza che ci portiamo al collo, con il laccetto, come San Dionigi decollato portava la testa sottobraccio. Verifico che esistono davvero le clementine del golfo di Taranto ma hanno sfumature verdi e una forma un po’ ellittica e schiacciata, esattamente come il mandarino campano. Sono quasi certa, per istinto, che quelle che mi stanno vendendo, in realtà, sono clementine calabresi. Affronto il fruttivendolo: “Mi scusi ma queste mi sembrano clementine calabresi non pugliesi”. Mi guarda come se fossi una docente di agraria oppure un ispettore di qualcosa di brutto, tipo frodi in commercio: «Ehmm, sì, sono calabresi, pure alle ragazze sono stato io a dire di mettere il cartello della Puglia». Sì, si sente colto in fallo.
Ma perché, perché? E nella risposta che ora vi racconto c’è tutta la summa del pensiero sulla Calabria vista da chi “sta più su”, di cui più volte ho scritto per il Corriere. «Non so come dirvi, se dici calabrese non so la gente come la prende, la Puglia va di moda, l’estate vanno tutti in Puglia, però ho le patate della Sila se vi interessano». No, non mi interessano le patate della Sila, mi interesserebbe spiegare all’ingenuo o furbo fruttivendolo e a tutti i suoi/miei concittadini che “calabrese” non è una brutta parola e che se uno o una cosa nasce in Calabria merita di portare le sue radici ovunque, soprattutto se sono persone o cose desiderate e competitive, come in questo caso un chilo di clementine.
Mi viene in mente quel cortometraggio sulla Calabria che commissionò Jole Santelli a Muccino, quante polemiche, quanti quintali di odio e fango le gettarono addosso. Ma io ricordo perfettamente gli agrumeti che si vedevano in quel video, il colore delle clementine di Corigliano e penso a quanto sarebbe stato utile, quanto lo sarebbe ancora dire agli altri: questa è la Calabria e non c’è nulla da nascondere o da camuffare. Sicuramente il lavoro in corso del governo regionale va in questo senso, avrei difficoltà a sminuire lo sforzo fatto anche in passato. Non c’è pregiudizio che non si possa ribaltare, non c’è immagine che non possa farsi largo, non c’è idea che non possa prevalere. Anche se c’è da riflettere sul fatto che successo e identità significhi moda. Per stare al ragionamento del nostro fruttivendolo. Il quale, per aggiornarvi sulla storia, mentre sono andata alla cassa a pagare ha tolto il cartello, ma non l’ha corretto. Le clementine sono rimaste clementine, senza patria, senza origine.
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