Nelle sabbie del dolore
di Vito Teti

Nelle sabbie del dolore
Prima di scrivere qualcosa per non morire o per non impazzire, vorrei manifestare il mio dolore per la scomparsa di un giovane trentenne, Francesco Occhiuto, ricercatore, che si occupava di psicologia. Al padre, senatore Mario Occhiuto, allo zio, Roberto Occhiuto, governatore della Calabria, ai suoi familiari, un caro abbraccio di sentite condoglianze. Ciao Francesco
Nelle sabbie dell’identità
Diceva Joseph Roth – cito come ricordo – che poiché era stato uno dei più aspri critici e acerrimo nemico dell’Impero Austro-ungarico, nel momento in cui quell’universo era crollato e il nuovo mondi si presentava come dispersione e dissoluzione, aveva tutto il diritto di avere nostalgia per il mondo perduto. Penso di essere stato, da 50 anni, nei miei libri e nei miei saggi, uno dei più acerrimi critici della “calabresità”, ridotta a macchietta e a folklorismo, di avere aspramente contrastato tutti i “sagrinventori” nostrani, il loro localismo, la loro angusta identità e, anche per questo, senza cambiare di una virgola la mia posizione, sento di poter dire che ho trovato certi discorsi sull’identità, sulle narrazioni, sugli stereotipi molto sterili, contraddittori, infondati, a dire il vero, anche poco aggiornati non solo con le nuove elaborazioni teoriche e politiche dell’antropologia, ma anche con lo “sconvolgimento” del mondo presente che scardina tutte le nostre certezze precedenti e che ci vede dinnanzi a un ordine o disordine mondiale, che non sappiamo decifrare. Oltre ai meriti di Brunori, che ho avuto modo di sottolineare, mi sembra che egli, affermando la sua lontananza da ogni localismo e folklorismo, abbia avuto quello, involontario e non cercato, di fare ripensare a tutti il senso (o il non senso) dell’essere, sentirsi, rappresentarsi “calabresi”, di come sia difficile raccontarsi e rappresentarsi, di quanto stereotipi e autostereotipi riguardano tutti: quelli che cantano, quelli che scrivono, quelli che “fanno”, quelli che abitano la Calabria (o le Calabrie e i Sud), quelli che stanno zitti e quelli che guardano dall’alto in basso. Christian Raimo, autore di una bella Vela Einaudi dal titolo “Contro l’identità italiana”, dopo avere decostruito il concetto d’identità, citando una ricca letteratura antropologica “contro l’identità” Fabietti, Bayart, Bettini, Remotti, Prosperi ecc.), giunge alla conclusione che è bene aprirsi ad altre discipline e che, forse rispetto a una tradizione che va da Aristotile a Cartesio e a Hume, “sarebbe il caso di fare un salto coraggioso, e immaginare una ontologia che si strutturi intorno a concetti diversi da quello d’identità, come quello di analogia” perché, come scrive Remotti, l’identità è solo “una prerogativa divina, un attributo riservato agli dei”, mentre gli “umani non sono altro che intrecci di somiglianze e differenze, come il resto degli altri esseri mortali: intrecci che si compongono e si scompongono sia nel corpo sia nell’anima”.
Discorso complesso, non adatto ai social, e però vorrei riportare il brano iniziale di un libro bellissimo “Ritorni. Diventare indigeni nel XXI secolo” di cui è autore James Clifford, antropologo statunitense, tra i maggiori esponenti del postmodernismo, famoso in tutto il mondo per la sua opera di critica storica e letteraria della rappresentazione antropologica. Scrive Clifford: “I popoli indigeni sono emersi dalla zona d’ombra della storia. Non sono più vittime commoventi o messaggeri nobili di mondi perduti, sono attori visibili in aree locali, nazionali e globali. In ogni continente, i sopravvissuti alle invasioni coloniali e all’assimilazione forzata rinnovano il proprio patrimonio culturale, si ricongiungono alle terre perdute e lottano all’interno di sistemi dominanti che continuano a sminuirli e non comprenderli. La loro stessa sopravvivenza è una forma di resistenza. Per prendere sul serio l’attuale rinascita delle società native, tribali o indigine è necessario evitare SIA LA CELEBRAZIONE ROMANTICA, SIA LA CRITICA SAGACE. Occorre un atteggiamento di APERTURA CRITICA, un metodo per relazionarsi a trasformazioni storiche complesse e a percorsi incrociati nel mondo contemporaneo; un approccio che definisco realismo”. (Il maiuscolo è mio e lo scritto originale del 2013, la prefazione all’edizione italiana del 2023 è del mio amico, bravissimo, antropologo Adriano Favole).
Nel 2013 non c’era stato il Covid, che come ricorda Latour, ha modificato tutto il nostro modo di essere, le nostre percezioni, le rappresentazioni di non e degli altri, le relazioni noi-altri, e ci ha messo dinnanzi all’interrogativo “DOVE SONO?”, dal momento che ognuno è disorientato, fuori luogo, lontano da se stesso, non sa nemmeno dove si trova e che strada percorrere, perché non c’è un télos (come scrive Galimberti). Adesso che Trump, Musk, l’IA hanno già creato uno “spaesamento” (sradicamento) globale, deportano milioni di migranti, cacciano dalle loro terre i palestinesi e gli ucraini, forse sarebbe il caso di essere meno “boriosi” e “sicuri” quando si parla di identità, di appartenenza, di radicamento e trovare categorie e parole nuove. Forse dobbiamo aggiornare le nostre letture, fare di nuovo ricerca, osservare in profondità e a lungo i paesi, starci, partire dalle sensazioni e dai bisogni dei “locali”, forse dovremmo sentirci parte del problema o non, presuntuosamente, risolutori, aristocratici e solitari, di un problema, che nemmeno conosciamo e nemmeno ci interessa.
Infine una domanda: perché quando il senso dell’appartenenza e il legame con la terra se lo pongono gli “indigeni” di tutto il mondo, gli indigeni, gli “indiani”, gli abitanti dell’Amazzonia, siamo convinti che stiano compiendo una forma di “resistenza” politica, anticoloniale, “identitaria” da sostenere, valorizzare, fare nostra, quando a “resistere”, a “restare”, ad opporsi a un’ espulsione di massa dei “calabresi”, dei “sudici”, degli abitanti delle aree interne, determinando una desertificazione del Sud, insomma, questi “indigeni” di qua (i Gesuiti, citati da De Martino), che siamo noi, sono “retori”, lacrimevoli, arretrati. Perché il “restare” degli altri è rivoluzionario e il nostro restare è di popolazioni arretrate. E perché non politicizziamo la “restanza” e non valorizziamo un fare etico, innovativo, aperto, che guarda al mondo, anche con gioia, con ironia, cantando, camminando, accogliendo, parlando la nostra lingua (il dialetto), dialogando con gli animali, i defunti, gli altri, gli “ultimi”?
E se provassimo a sentirci, oltre che “calabresi” (alcuni “anticalabresi) anche abitanti di un luogo, di un paese, terrestri, della terra, dei boschi, delle acque, del pianeta, di cui fanno parte anche animali, oggetti, “natura”? (Foto in copertina: San Nicola da Crissa, 1982, di Vito Teti)