Ma vi ricordate le scarpe calabresi di D’Alema?
Le borse tarocco della pitonessae l’egemonia fashion della destra

Tarocco e pezzotto, in fondo la furbata della ministra fa simpatia. Ha esagerato, la pitonessa, nella foga di ingraziarsi una napoletana che, per sua stessa ammissione, di contraffazione se ne intende per appartenenza territoriale.
Due, non una, due borse di Hermes donate a Francesca Pascale, (che ha molta voglia di riprendersi la scena politica e così oggi spiffera) che i meticolosi commessi della maison di via Montenapoleone avrebbero sgamato per mancanza di codice di autenticità. Dettagli che chi si ferma solo alle vetrine non potrà mai conoscere. Fa simpatia lady sorella d’Italia, scagli la prima pietra chi non si è mai lasciato sedurre dall’affaruccio che, mica i bancarellari ma distinti spacciatori del vero ti offrivano, non ora alle feste di paese con inguardabile paccottiglia ma un tempo in sottoscala avventurosi, srotolando cinturoni con la H gigante o la G portentosa, e tirando fuori da sacchetti, scatole e shopping bag color Imperial Saffron una Vuitton che solo a guardarla ti sentivi nella golden age delle grandi esplorazioni e dei primi viaggi intorno al mondo di inizio Novecento.
All’inizio furono i napoletani (lo spiega bene Saviano in Gomorra).
Sotto il Vesuvio le ragazze di quarant’anni fa, sulle bancarelle di San Pasquale a Chiaia davanti al liceo Umberto, tutte in fila, ricche e povere, facevano la fila per uno zainetto con i monogram Vuitton rifinito con cuoio già scurito che così era più credibile che l’avevi sottratto a una dotazione materna. Il falso di qualità livellò i sogni di un’intera generazione, tutti potevano accedere a tutto, in una città che dopo il contrabbando di sigarette si industriò su come assecondare i sogni di un lusso inaccessibile ai più sfigati ma che faceva gola anche a chi poteva permettersi di spendere. Al punto che si annullarono le distinzioni, nessuno più si pose il problema del vero o falso, tutto filava in una democratica indistinzione che calmierò i dissidi sociali, almeno quelli legati all’apparire, e ti faceva credere che a San Giuseppe Vesuviano nelle fabbriche nascoste del tessile dove si appaltavano le collezioni di Armani e Versace e Blumarine, i pezzi scartati dai grandi stilisti per qualche strappo nelle cuciture finivano in offerta alla portata di tutti. Non avevamo capito che la camorra ci lucrava. Poi vennero i cinesi e le cose cambiarono, mentre tra le amiche avanzava la traiettoria turca affidata a qualche generosa imprenditrice che si spostava per lavoro da quelle parti e rientrava con un catalogo da colpo grosso. Infine fu Telegram e le più ricche, in genere molto informate, cominciarono a scambiarsi informazioni sui canali dove acquistare “originali rigenerati”, ma tanto anche il calzolaio sotto casa nel frattempo era in grado di sostituirti una cerniera inceppata, un cordone di cuoio e dare una sbiancata a una Sofia di Ferragamo. L’industria del falso non era più un tabù, al punto che nessuno desiderò più nulla, succede così quando puoi avere quello che decidi di avere. Il second hand avanzava come stile di sostenibilità, le pellicce di visone manco più ad Ercolano, e nel dark web ci finivano cose buone per le indagini di Gratteri.
Ora la ministra Santanchè ha un bel po’ di problemi di cui dovrebbe seriamente occuparsi. Ma questa cosa che da giorni si sta facendo l’elenco dei reati che avrebbe commesso regalando due borse taroccate comprate sotto la tenda del Twiga a Forte dei Marmi per non farsi vedere – ricettazione, incauto acquisto etc etc – fa veramente sorridere. E andrebbe contestato alla ministra che il vero danno che la sua grandeur produce è aver fatto passare una certa idea dell’Italia, buona ormai per mercati arabi.
Il desiderio di una generazione sbocciato proprio quando i grandi marchi della moda italiana si affacciavano sul mercato si è acquietato col tempo, a partire dalla regione in cui ebbe origine, la Campania, dove l’abilità della produzione del falso fu santificata addirittura con un museo da parte di un docente universitario di Salerno, Salvatore Casillo, che radunò sociologi, antropologi, psicologi, archeologi, storici dell’arte, giuristi, merceologi, studiosi di letteratura, per affrontare a grande questione della meta-verità che decenni dopo sarebbe diventata la post-verità.
Ora in un’epoca in cui nessuno più riesce a distinguere il vero dal falso, ci divertiamo a puntare il dito contro la pitonessa scaltra che quando scende dall’auto col tacco in avanti, il capello voluminoso e la borsa aperta come fai a non darle la rappresentanza di un’Italia così confusamente approssimativa che non riesce a trovare più lo stile giusto. A Daniela, sorella di tutte noi, contestiamo che alla sua rispettabile età (già era rispettabile quando ha fatto il regalo alla Pascale) ancora pensi che sia questo il giusto dono da portare in dote di alleanze. Poi dicono l’egemonia culturale, essì. Perché sarà stato pure antipatico ma quei mocassini calabresi di Cesare Firrao regalati da Marco Minniti a Massimo D’Alema, quelli sì erano un autentico lusso. L’ha pagata cara, pure lui. (redazione@corrierecal.it)
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