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In Italia è emergenza povertà sanitaria

I cittadini che rinunciano a curarsi sono 4,5 milioni. Ancora otto le Regioni non in linea sui Lea

Pubblicato il: 29/04/2025 – 12:57
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In Italia è emergenza povertà sanitaria

ROMA Quasi un quarto della popolazione in Italia è a rischio di povertà o di esclusione sociale, per l’esattezza il 23,1%. Lo riporta l’Istat ed è sempre l’Istituto nazionale di statistica a mettere in fila i dettagli delle conseguenze socio-sanitarie di questa condizione, nell’ultimo Rapporto sul Benessere equo e sostenibile (Bes) che fotografa l’anno 2023: gli italiani che rinunciano a curarsi sono 4,5 milioni, di cui ben 2,5 milioni per motivi economici e con un dato in crescita di 600mila persone rispetto al 2022. Un ritratto drammatico, riconducibile soprattutto a due ordini di motivi. Da una parte, ci sono le condizioni economiche critiche che contribuiscono all’esclusione di una fetta sempre più ampia di famiglie – soprattutto al Sud e tra gli stranieri ma non solo – da cure che non possono pagare di tasca propria; dall’altra parte, impattano le lunghe liste d’attesa lievitate dopo la pandemia e di cui – fatta eccezione per poche isole felici sul territorio nazionale – ancora non si riesce a venire a capo. Il tutto, in un contesto di risorse inadeguato a coprire il fabbisogno di cura.

 L’identikit della povertà sanitaria

La povertà sanitaria si inserisce in questo panorama complesso: non è quindi soltanto “mancanza di soldi”, che pure ovviamente pesa per il 4,2% nel 2023 (+1,3% sull’anno precedente), ma è anche la difficoltà che in determinati aree geografiche e per specifiche fasce di popolazione – ad esempio le meno acculturate e le più isolate socialmente – si traduce in impossibilità di accedere alle cure pubbliche. O alle medicine: basti pensare che tra 2023 e 2024 la fila delle persone che si sono rivolte a Banco farmaceutico per ottenere confezioni che altrimenti non avrebbero potuto permettersi si è allungata dell’8,4 per cento. Sugli ostacoli alla disponibilità di cure pubbliche incide di certo un finanziamento che non regge il passo con tecnologie sempre più costose e con l’invecchiamento della popolazione, gravato dalle cronicità che impattano nel complesso per 65 miliardi l’anno. L’ultimo Documento di finanza pubblica approvato dal Governo, sulla carta porta la spesa sanitaria a 151,6 miliardi nel 2027 dai 138,3 miliardi attuali ma con un rapporto tra spesa sanitaria e Pil che resterà fermo al 6,4 per cento fino al 2028. Al di là delle percentuali, l’evidenza è che nella vita sanitaria reale delle persone questi dati con il segno “+” oggi hanno effetto limitato. Tanto che malgrado gli italiani siano sempre più longevi, la speranza di vita in buona salute nel 2023 è di 59,2 anni, con un arretramento dai 60,1 anni del 2022.

Un quarto dei poveri rinuncia alle cure

Un dato su cui occorre decisamente lavorare contrastando con politiche mirate la rinuncia alle cure: il budget familiare si mantiene in equilibrio faticosamente per quel 24,5% di famiglie povere che ha dovuto dire “no” almeno una volta alle prestazioni sanitarie, contro il 12,8% dei nuclei familiari che poveri non sono. Tradotto: 536mila nuclei indigenti sono particolarmente esposti al rischio di compromettere o di peggiorare la propria salute. L’identikit dei “poveri sanitari” vede una prevalenza di uomini (il 54%) e di persone adulte con la fascia 18-64 anni che occupa il 58%. Ma è significativa anche la quota di minori: sono il 22% mentre gli anziani si attestano sul 19%. La fotografia degli over 65 nel dettaglio la scatta l’Istituto superiore di sanità: rinunciano a viste ed esami diagnostici anche le persone più cagionevoli di salute e il 25% di quanti presentano almeno una malattia cronica. Mentre più della metà di quanti non rinunciano alle cure pagano di tasca propria. E’ la cosiddetta spesa “out of pocket” sostenuta direttamente dai cittadini e che nel complesso in Italia ha superato la cifra monstre dei 40 miliardi. In linea di massima, chi più ha più spende e infatti l’acquisto privato di visite ed esami cresce maggiormente nelle Regioni ricche. Sono costretti a chiamarsi fuori quelli che non possono permettersi di mettere mano al portafoglio per garantire le cure per sé o per i propri cari. Come buona parte dei cittadini della Sardegna, primi per rinuncia alle cure.

Liste d’attesa infinite per i fragili

Sull’intera popolazione, da Nord a Sud con poche eccezioni, incide poi la magagna liste d’attesa. Gli italiani che rinunciano a curarsi davanti a “code” infinite sono passati dal milione e mezzo del 2019 ai 3 milioni del 2023, con 372mila persone in più fotografate dall’Istat sempre nel Rapporto Bes. Un incremento che – sottolineano i ricercatori – “può attribuirsi a conseguenze dirette e indirette dello shock pandemico, come il recupero delle prestazioni in attesa differite per il Covid-19 o la difficoltà di riorganizzare efficacemente l’assistenza sanitaria, tenuto conto dei vincoli a coprire l’aumento della domanda di prestazioni con un adeguato numero di risorse professionali e non da ultima la spinta inflazionistica della congiuntura economica, che ha peggiorato la facoltà di accesso ai servizi sanitari”. In sintesi, mancano risorse e personale.

La chance della sussidiarietà circolare

Come uscirne? Per Stefano Zamagni, docente di Economia civile all’Università di Bologna, di International Political Economy alla John Hopkins University e presidente emerito della Pontificia Accademia delle Scienze sociali, va applicato il concetto di sussidiarietà circolare anche nel contrasto delle liste d’attesa. “Primo – spiega – vanno fissati gli obiettivi specifici che si intendono perseguire. Secondo, vanno definiti i criteri di prioritarizzazione nell’esecuzione degli interventi, secondo il principio di giustizia intesa come equità. Terzo, occorre definire le fonti di reperimento delle risorse necessarie, posto che la tassazione generale non è più sufficiente ad assicurare l’universalismo delle prestazioni”. Per Zamagni “è urgente iniziare a discutere della proposta dell’Industry Health Model, come avviene all’estero: le imprese private – profit e non profit – che operano a monte o a valle del servizio sanitario dovrebbero contribuire con l’ente pubblico nel supportare i costi di formazione del capitale umano e di funzionamento dei laboratori, secondo modalità concordemente definite. Invero, queste imprese – che operano con successo sul fronte dei dispositivi medici, dei farmaci, dei vaccini e altro – si avvalgono di personale altamente qualificato i cui costi di formazione vengono sostenuti dallo Stato per oltre un decennio”.

Terzo settore da arruolare

“Nel dibattito pubblico tutto è molto schiacciato sul pur necessario argomento del recupero della spesa sanitaria – prosegue Luca Pesenti, docente di Sociologia all’Università Cattolica e coordinatore dell’Osservatorio sulla Povertà sanitaria di Banco Farmaceutico -. Ma non è solo un problema di spesa. Dal 2011 al 2020 il servizio sanitario nazionale ha perso 37 miliardi tra definanziamenti, tagli, eccetera. Ma come Osservatorio riteniamo che questa discussione sia insufficiente: non è solo un problema di spesa ma è probabilmente un problema di assetto. In Italia noi parliamo dagli anni ’80 e ’90 di Welfare Mix, per dire che a livello territoriale i sistemi di Welfare dei Comuni sono in larga parte ormai gestiti proprio dal Terzo settore. Allora è ora di aprire una discussione sul pieno riconoscimento di quelle 12.000 e passa organizzazioni di Terzo settore, che già qui e ora ma anche storicamente fin dal Medioevo si stanno occupando di questo mondo della sanità. Con competenza, con passione e con acume. Abbiamo bisogno – prosegue – di ridisegnare il Servizio sanitario nazionale tenendo dentro questa risorsa soprattutto nella sanità di territorio, che è quella che fa più fatica e anche i dati recenti ce lo confermano”.

Lea sintomo dell’esclusione

Nel frattempo, abbiamo assistito al raddoppio dal 2,8% al 4,5% tra 2019 e 2023 di quanti hanno rinunciato alla sanità per problemi di liste d’attesa, che hanno avuto ripercussioni particolarmente sempre sui più fragili. Per loro come per tutti i cittadini dovrebbe aprirsi l’ombrello dei Livelli essenziali di assistenza (Lea), le prestazioni che il Servizio sanitario è tenuto a erogare gratuitamente o dietro pagamento dei ticket. Ma proprio i Lea sono la cartina di tornasole delle disuguaglianze che troppo spesso vanno ad alimentare la povertà sanitaria. Se sulla carta crescono le prestazioni ricomprese nel pacchetto Ssn, troppi territori restano scoperti, come certifica il ministero della Salute nel suo ultimo monitoraggio. Sono ancora otto le Regioni che non riescono a garantire prestazioni adeguate ai loro cittadini in tutte e tre le aree dei ricoveri ospedalieri, delle cure territoriali e della prevenzione: dalla Valle d’Aosta all’Abruzzo, dalla Calabria alla Sicilia, da Bolzano alla Liguria e dal Molise alla Basilicata. Realtà sotto-soglia, per lo più concentrate nel Sud del Paese, che le famiglie devono lasciare quasi sempre per necessità se vogliono ricevere prestazioni adeguate che vanno ad alimentare una mobilità sanitaria arrivata a 5 miliardi di euro e lo stesso circolo vizioso della povertà sanitaria. (Tratto da “Il Sole 24 Ore”)

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