«Il valore personale non si misura in like»: l’allarme di Valeria Verrastro
La docente di Psicologia dello sviluppo all’Università di Catanzaro avverte: «Serve pensiero critico per proteggere i giovani dai social»

Distorsione dell’immagine corporea, ansia da like, modelli irrealistici di successo e contenuti per adulti facilmente accessibili. Sono solo alcuni dei rischi, anche psicologici, che i più giovani corrono nell’utilizzo dei social network. Con Valeria Verrastro, professore associato di Psicologia dello sviluppo e dell’educazione nell’Università di Catanzaro, discutiamo delle conseguenze dell’esposizione digitale precoce, delle gravi carenze del sistema educativo e del ruolo di scuola, famiglie e sport nella costruzione di un’identità personale solida e consapevole. L’intervista di oggi rappresenta oltretutto un richiamo urgente a colmare il divario generazionale e a costruire una vera cittadinanza digitale.
Nella propria, importante attività di ricerca, Verrastro indaga tra l’altro l’uso problematico dei social network da parte dei più giovani e le loro dipendenze comportamentali, come le ripercussioni su autostima e regolazione emotiva.
Professoressa, quali sono i principali rischi psicologici che i minori affrontano nell’uso quotidiano dei social network, in particolare rispetto all’esibizione del proprio corpo su piattaforme come Instagram?
«I principali rischi includono lo sviluppo di una immagine corporea distorta, la dipendenza dal giudizio altrui – likes, commenti – e una costante esposizione al confronto sociale, che può favorire insicurezza, ansia e bassa autostima. I social possono diventare un palcoscenico in cui i giovani sentono di dover performare costantemente, perdendo il contatto con la propria autenticità».
Che relazione c’è, dal punto di vista psicologico, tra la continua esposizione sui social e i modelli di affermazione personale e successo economico che vengono proposti ai giovani?
«La sovraesposizione a modelli irrealistici di successo crea spesso una discrepanza tra il Sé reale e il Sé ideale, alimentando frustrazione, senso di inadeguatezza e, in alcuni casi, sintomi depressivi. I social spesso veicolano una narrazione distorta dove il valore personale sembra dipendere dal successo economico, dalla visibilità o dall’estetica».
Secondo lei, il mercato dei contenuti per adulti diffusi attraverso piattaforme social, spesso accessibili anche a giovani e minori, può configurarsi come una forma di prostituzione legalizzata?
«Si tratta sicuramente di un fenomeno che pone importanti questioni etiche e legali. Dal punto di vista psicologico, l’accesso precoce e non mediato a questi contenuti può compromettere lo sviluppo affettivo e sessuale dei minori, riducendo le relazioni a dinamiche di oggettivazione. L’aspetto educativo, affettivo e relazionale viene spesso bypassato, con rischi per la costruzione dell’identità e del rispetto di sé».
A suo avviso, il sistema formativo familiare e scolastico è adeguato a educare i ragazzi a un uso consapevole e maturo dei social, oppure si registrano gravi carenze?
«Esistono buone pratiche, ma spesso sono isolate. In generale, il sistema formativo presenta ancora gravi carenze nel preparare genitori, insegnanti e studenti a una cittadinanza digitale consapevole. È fondamentale integrare nei curricoli scolastici competenze digitali critiche, educazione emotiva e alfabetizzazione affettiva. Il Centro interdipartimentale servizio di psicologia (Cisp) dell’università “Magna Graecia” di Catanzaro, grazie al lavoro di docenti esperti, offre percorsi mirati a migliorare le competenze comunicative e relazionali, strumenti fondamentali anche per affrontare i contesti digitali».
C’è, secondo lei, una sottovalutazione psicologica e pedagogica della portata di questi fenomeni da parte degli adulti e delle istituzioni? Se sì, a che cosa è dovuta?
«Sì, c’è una sottovalutazione diffusa, spesso dovuta a una scarsa conoscenza del linguaggio e delle dinamiche digitali. Molti adulti non possiedono strumenti aggiornati per comprendere pienamente i rischi e le opportunità dei social. Questo divario generazionale impedisce un dialogo costruttivo con i giovani. Anche in tal caso, il Cisp può fungere da ponte, offrendo formazione e consulenza a educatori e famiglie per colmare questa distanza».
Che cosa bisognerebbe fare, concretamente, per indirizzare i ragazzi a un uso più consapevole dei social, aiutandoli a comprendere meglio i limiti della libertà personale e l’importanza del rispetto di sé?
«Servono programmi educativi continuativi, non interventi spot. È essenziale promuovere una cultura del rispetto e della responsabilità online, insegnando ai ragazzi a riconoscere i propri limiti, a proteggere la propria privacy e a distinguere tra visibilità e valore personale. Il Cisp può accompagnare queste iniziative con attività di counseling psicologico e laboratori di educazione digitale e affettiva».

Quali strumenti o percorsi formativi ritiene più efficaci per sviluppare nei giovani una percezione critica dei modelli di successo e dei meccanismi di mercato veicolati attraverso i social?
«Percorsi di educazione al pensiero critico, esperienze laboratoriali, storytelling riflessivo, gruppi di parola e attività di role-playing. Tutti strumenti che favoriscono l’autoconsapevolezza e la decostruzione dei messaggi veicolati dai media. Anche in questo ambito il Cisp può offrire percorsi personalizzati e di gruppo per stimolare nei giovani una maggiore capacità di discernimento e autoregolazione».
Lo sport, che abitua a una visione di sé e degli altri basata su regole, impegno e rispetto, può essere un aiuto concreto per prevenire i rischi legati all’esposizione sui social e per rafforzare l’identità personale dei ragazzi?
«Assolutamente sì. Lo sport insegna disciplina, cooperazione e resilienza, valori fondamentali anche nel mondo digitale. Aiuta a sviluppare un senso di identità basato sull’esperienza reale e sul corpo vissuto, contrastando la logica della performance estetica virtuale».
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