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Minori e social: la disintegrazione della realtà, del corpo e dell’amore

La redazione di Drive In: «Il programma tv contribuì ad un cambiamento sociale e cultura e ancora oggi viene celebrato in prestigiosi atenei italiani»

Pubblicato il: 09/05/2025 – 7:15
di Emiliano Morrone
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Minori e social: la disintegrazione della realtà, del corpo e dell’amore

Sara ha tredici anni, un telefono nuovo, una connessione stabile e una madre che lavora da mattina a sera in un call center. La minore ha capito presto come funzionano TikTok, Instagram, Telegram. Ha imparato che un sorriso inclinato, un’ombra di trucco e un taglio obliquo della webcam attirano like e messaggi diretti. Di recente, un utente con la foto del profilo falsa le ha scritto: «Se apri un canale ti pago. Facciamo soldi facili, fidati». Sara non ha risposto, ma ci ha pensato. È qui che si gioca il dramma del nostro tempo: nell’ambiguità tra virtuale e reale, in cui il corpo si trasforma in merce e la relazione in simulacro, il desiderio non è più incontro ma algoritmo e l’amore scompare nell’archivio dei contenuti suggeriti.
I social media – lo dicono anche gli studi dell’American Psychological Association e del Pew Research Center – stanno modificando profondamente la percezione della realtà nei minori. I più giovani trascorrono fino a otto ore al giorno online, in uno spazio in cui la corporeità è filtrata, la parola ridotta a codice e l’altro diventa funzione del proprio bisogno momentaneo di conferme. Non è solo alienazione, è una vera e propria ridefinizione dell’identità, che avviene fuori dalla relazione reale, nel regno della performance permanente.
Tra video brevi, selfie iper-editati e “challenge” che vanno dalla danza erotizzata al pericolo fisico, si innesta un concetto distorto della sessualità, privo di profondità emotiva, depurato dell’esperienza reciproca, privato di pudore e di attesa. L’innamoramento, quel lento, fragile, irriducibile processo di scoperta dell’altro, oggi appare un’anomalia: non serve più in un sistema che propone il corpo come prodotto, l’interazione come automatismo e la relazione a portata, ritmo e valore di click.
Eppure, non è finzione narrativa. Anzi, è già realtà quotidiana. Il National Center for Missing and Exploited Children ha denunciato un’impennata del materiale sessuale autoprodotto da minorenni, diffuso su piattaforme dove, tra le pieghe dell’intrattenimento, si promuovono accessi a contenuti per adulti con link mimetizzati e linguaggio accattivante. Il fenomeno si chiama “sextortion” e, nel 2024, ha coinvolto centinaia di adolescenti italiani, spesso incapaci di denunciare per vergogna o ricatto.

Le falle del Codice penale italiano

Sul piano del diritto, le falle sono enormi. Il Codice penale italiano all’articolo 600-quater punisce la detenzione di pornografia minorile, ma resta incerta la qualificazione dei contenuti in cui i minori sono autori e protagonisti. I social, per parte loro, si rifugiano nelle clausole di responsabilità limitata e nell’alibi del controllo algoritmico. Le famiglie spesso non capiscono; le scuole non riescono a contenere il fenomeno; lo Stato tace. Il punto è che non siamo arrivati fin qui per caso. La televisione commerciale aveva già aperto la strada, dagli anni Ottanta, trasformando il corpo in superficie da monetizzare. “Drive In” – la trasmissione-manifesto di un’Italia che scopriva il varietà volgare – è stato l’inizio della seduzione come strategia pubblicitaria, della donna come provocazione comica, della sessualità come linguaggio mainstream, sfruttato, normalizzato, venduto a pacchetti pubblicitari. Il web non ha inventato nulla. Ha solo accelerato, amplificato e personalizzato il modello. Ora ognuno può diventare protagonista della propria televendita erotica. Basta uno smartphone. E se hai meno di diciotto anni, poco importa. Le transazioni sono legittime, i circuiti bancari funzionano, le piattaforme incassano e ringraziano.

Il caso di “Ika D’Auria”

Emblematico è il caso di “Ika D’Auria”, una giovane italiana diventata una celebrità digitale. Il suo profilo Instagram conta oltre 839mila follower e diversi milioni di visualizzazioni ogni mese, con foto e video della ragazza che alternano ironia, sensualità e uno stile di vita ostentato. Questa instagrammer costruisce attorno a sé una narrazione che mescola autenticità simulata e strategie di engagement apprese in rete. Nulla è lasciato al caso: pose, luci, filtri, sottotitoli. È una regia continua, finalizzata a ottenere attenzione, consenso, lucro. Il corpo, anche qui, è il mezzo e il messaggio. Alla fine, è questo il cuore del problema: l’accettazione totale del corpo come merce; anche quando, spesso, si tratta di un corpo in formazione, di un volto ancora impacciato, di un’identità fragile. Il capitalismo contemporaneo, nella sua versione digitale e sregolata, non ha limiti morali o simbolici: se qualcosa può essere venduto, sarà venduto. Se può generare traffico, sarà promosso. Se può essere pagato, sarà normalizzato. L’essenziale è che esista una transazione, un numero di carta, una banca pronta a mediare tra domanda e offerta.

Un problema che riguarda tutti

Così si perdono i confini tra il gioco e il pericolo, tra l’espressione e la manipolazione, tra la libertà e il ricatto. Così si perde l’altro, nella sua alterità irriducibile, nella sua complessità, nella sua corporeità irripetibile. Così si perde l’amore, non quello retorico da fiction televisiva, ma quello reale, imperfetto, che passa dallo sguardo incerto, dalla parola tremante, dal rispetto dei tempi altrui. E si perde anche il sesso, ridotto a protocollo commerciale, privato del suo mistero e del suo potere trasformativo. È un problema che riguarda tutti: genitori, docenti, politici, imprenditori, giornalisti. È la grande questione culturale e civile del nostro tempo. Non possiamo più fingere di non vedere. La tutela dei minori non va lasciata alle regole d’uso di una piattaforma americana o al filtro casuale di un’app. Serve una presa di coscienza collettiva. Occorre ripartire dal corpo come luogo di incontro e di dignità, dalla scuola come spazio di educazione affettiva e critica, dalla politica come argine e visione. Prima che l’amore diventi una notifica, e il nostro futuro soltanto un archivio di contenuti consunti, passati, inattuali.

Riceviamo e pubblichiamo la precisione inviata dall’ufficio stampa di “Striscia la notizia” (e Drive In):

«Gentile redazione,
abbiamo letto sul Corrieredellacalabria.it l’articolo di Emiliano Morrone in cui il giornalista e saggista, parlando della “trasformazione del corpo in superficie da monetizzare”, cita a sproposito Drive In, definendola “la trasmissione-manifesto di un’Italia che scopriva il varietà volgare” e “l’inizio della seduzione come strategia pubblicitaria, della donna come provocazione comica, della sessualità come linguaggio mainstream, sfruttato, normalizzato, venduto a pacchetti pubblicitari”.
Forse il dottor Morrone confonde le ballerine di Drive In con le “scodinzolanti” Ragazze Coccodè di Renzo Arbore, che a Indietro tutta! ballavano e si dimenavano (s)vestite da galline? Lo invitiamo a non scambiare effetto con causa, specchio deformante e realtà. A Drive In le Ragazze Fast Food erano un’iperbole: figure retoriche viventi, caricature al pari del paninaro, del bocconiano o del dott. Vermilione. Essendo parodie è evidente che prendessero spunto da altro, infatti le “tette nude” erano altrove. Erano anche in tv sui canali Rai (Il Cappello sulle 23, C’era due volte, Stryx, Due di tutto). A Drive In, invece, le ballerine di fila (molto più vestite delle “donnine di Macario” e delle acrobate di qualsiasi circo) prendevano la parola e facevano battute, tra l’altro interpretando testi scritti da una donna, Ellekappa. Non erano ragazze sottomesse, anzi recitavano la parte delle tipe toste, schiaffeggiando chi le importunava e schiavizzando all’occorrenza i loro colleghi maschi. Altro che “varietà volgare”: Drive In contribuì a un cambiamento sociale e culturale che ancora oggi, a 40 anni di distanza, viene celebrato con convegni in prestigiosi atenei italiani, dall’Università Cattolica di Milano alla Sapienza di Roma. Ha inoltre suscitato l’interesse anche di una regista americana, Clare Major, che nel 2023 ha ideato un documentario proprio sull’impatto di Drive In in tema di empowerment femminile. Una piccola grande rivoluzione che suscitò l’attenzione anche di Maria Novella Oppo, che ne scrisse sull’Unità. Anche Federico Fellini, Umberto Eco, Giovanni Raboni, Beniamino Placido, Oreste Del Buono, Lietta Tornabuoni e molti altri definirono Drive In «la trasmissione di satira più libera che si sia vista e sentita per ora in tv» o «l’unico programma per cui vale la pena avere la tv».

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