Ultimo aggiornamento alle 13:09
Corriere della Calabria - Home

I nostri canali


Si legge in: 6 minuti
Cambia colore:
 

MEMORIE CONDIVISE

Un secolo a Cosenza: volti, storie e parole del ‘900 di Paride Leporace – VIDEO

Presentato il libro del giornalista e scrittore. Il dialetto e la cosentinità secondo Dario Brunori. «La mia città tra curva e controcultura»

Pubblicato il: 10/05/2025 – 12:08
di Eugenio Furia
Un secolo a Cosenza: volti, storie e parole del ‘900 di Paride Leporace – VIDEO

COSENZA Un libro-mondo, anche se racconta un microcosmo. È “Cosenza nel ‘900. Storie e personaggi”, il nuovo volume di Paride Leporace edito da Pellegrini e presentato ieri pomeriggio nella (gremita) terrazza della storica casa editrice bruzia. Con il giornalista e scrittore cosentino anche il cantautore Dario Brunori: la presentazione, moderata dalla giornalista Donata Marrazzo, si è aperta con le letture dell’attore Emanuele Gagliardi. Per Leporace si tratta di seguire il solco della memorialistica lasciando però l’auto-fiction di Cosangeles per costruire – e consegnare alla collettività – uno strumento per leggere il presente attraverso il passato.

Tra vilienza e sprido

Si parte dalla definizione di “Cosenza città fredda e arguta” come la dipinse nel suo “Viaggio in Italia” Guido Piovene, negli anni cinquanta, vedendo in corso Mazzini «una piccola Broadway» illuminata e caotica proprio come appare nella copertina del libro oltre che nell’animazione creata dall’IA (opera di Paolo Mercuri sulle foto di Alfredo Salzano) con cui si chiude il pomeriggio letterario. Che scorre tra il dialetto della Viliénza – una apucundrìa napoletana, dice Marrazzo – cantata da Enrico Granafei, e scambi di battute. Refrain brunoriani come il «Mi sicca» musicato in loop da Sarafine e la teoria su «Camigliatello come Seattle» introducono al meglio l’intervento dell’autore: «Ho cercato di calmierare la nostalgia del bel tempo perduto» esordisce Leporace ricordando da buon saggista le fonti e tributando un commosso saluto a Emilio Tarditi, custode di memorie e storiografo minuzioso di fatti minuti eppure importantissimo della amata Cosenza.
Poi parla della Cosenza da bere fatta anche di contaminazioni sociali dopo i settanta, «furono anni anche molto divertenti, senza telefonini ma con tanto girovagare e tanti contatti umani, concerti dentro e fuori la Calabria, anche senza rete ciò che accadeva a Londra prima o poi arrivava a Cosenza»; sono gli anni dello sprido, l’edonismo della borghesia effimero e consumistico, delle comitive a piazza Kennedy nella città bifronte tra Golf turbodiesel e gli “splendidi” al bar Tosti, punk e paesani, camerati e compagni.

Il dialetto e la provincia nel secolo delle donne

«Il 900 a Cosenza è il secolo delle donne, di tutte le classi sociali» aggiunge Leporace sottolineando il ruolo dell’ Unical e il traino del ’68 cosentino studentesco che fu «trasversale: oggi l’ateneo è freno allo spopolamento e anzi attira cervelli, Zavoli concluse un suo reportage con la scena commovente degli abbracci dei genitori contadini ai primi laureati di Arcavacata», degnamente rappresentati ieri da Sergio Chiatto.
Brunori cita subito la madre «dei Rivocati» e la sua innata vena umoristica mai offensiva ma difensiva, alimentata per esorcizzare: «È una cosentinità che sfata i miti e non prende nulla sul serio, neanche se stessi, irride i potenti e gli uomini in divisa. Nei concerti cerco di boicottare il mio personaggio serio e triste grazie all’umorismo» dice Brunori. Poi parla della «vergogna del dialetto», da lui rivendicato ed esibito sebbene considerato una macchia nel contesto nazionale, e degli anni in cui nella sua Guardia Piemontese i cosentini erano insieme «invasori ma alleati» contro i turisti napoletani. Poi racconta il suo peregrinare nella provincia della Provincia, da Joggi (400 abitanti) a Guardia (1000) e infine San Fili (2500) «dove mi stanno facendo il busto incastonato nell’albero delle noci, diranno che sono apparso lì come la madonna di Guadalupe – ma a sessant’anni chissà…».
«A Guardia passavamo gli inverni a guardare i treni – era l’unico diversivo – ma quella noia mi è servita come motore per coltivare delle passioni a partire dalla musica. Cosenza era un centro culturale e di controcultura, da lì arrivavano negli anni 90 – il tempo della mia adolescenza – vestiti da rapper o parlando di cose sconosciute: i riferimenti venivano da Cosenza o da Napoli, con l’uso del dialetto mai folkloristico ed esclusivo nel senso che esclude, roba da subordinati più che provinciali, ma come resistenza alla omologazione. Anche la curva mi ha educato alla cosentinità. Se parlo dell’affàscino (malocchio disinnescato dallo sfàscino, ndr) non lo faccio per essere una macchietta… Perché Luca Carboni può parlare con la cadenza bolognese e io no?».

Ciardullo, i Chiappetta e Pasquale Rossi

«Grazie a de André e al suo “Creuza de ma” ci siamo accorti che non bisogna vergognarsi del dialetto». Paride Leporace torna sul tabù del vernacolo, parlato di nascosto anche dalla borghesia, di quello “mascagno” della malavita e quello di Ciardullo, «personaggio strepitoso e intellettuale poliedrico che irride il fascismo, estremamente cosentino benché di Perito, frazione di Pedace». Sul tema, Brunori raccoglie l’assist spiegando di non aver «mai scritto in dialetto prima di “Fin’ara luna” nell’ultimo disco» e di rifuggire un calabrese mediamente folkloristico ad eccezione di Peppe Voltarelli – «mio maestro anche nell’approccio alla scrittura» – e pochi altri: tornano i suoi Novanta dei campani 99 Posse e Almamegretta, dei salentini Sud Sound System e dei cosentini South Posse a testimonianza di un «fermento» da cui nacque la «possibilità di un racconto diverso, prima che i localismi diventasseri esotici, non una riscoperta ma solo intrattenimento. La voce con cui canto è diversa da quella con cui parlo, e la voce con cui canto in dialetto è diversa da quella di quando canto in italiano» conclude Brunori.
Nella chiusura di Leporace invece le immancabili  menzioni di Chiappetta senior e del nipote omonimo Totonno, e poi la Cosenza colta dei giornali, di figure come Pasquale Rossi che permettono all’autore di invocare una «toponomastica che non sia un mercato delle vacche elettorali».  

Una galleria di maschere di strada

Non può mancare la politica con i riferimenti all’area urbana («io sogno la Cosenza dei casali» afferma Leporace) e al recente dibattito referendario, la carenza di servizi («basta guardare i pullman, senza parlare di taxi…» lamenta Leporace da fiero autostoppista) e soprattutto la militanza, altro lascito novecentesco che oggi manca: la Cosenza socialista dei Mancini che «aveva percentuali superiori a quelle di Milano», la scuola democristiana che affonda le radici nella tradizione cattolica di inizio 900, il Pci e profili monumentali come il bordighista Natino La Camera. E poi la storia tragica dell’anarchico Luigi Lo Celso. Una galleria di strada composta dai medaglioni di freak, tossici, ambulanti, giullari e banditori, Salvatore “Acìaddru” e altre maschere che non ci sono più ma fanno ancora commuovere al solo ricordo. (e.furia@corrierecal.it)

L’intervista:

Il Corriere della Calabria è anche su WhatsApp. Basta cliccare qui per iscriverti al canale ed essere sempre aggiornato

Argomenti
Categorie collegate

Corriere della Calabria - Notizie calabresi
Corriere delle Calabria è una testata giornalistica di News&Com S.r.l ©2012-. Tutti i diritti riservati.
P.IVA. 03199620794, Via del mare 6/G, S.Eufemia, Lamezia Terme (CZ)
Iscrizione tribunale di Lamezia Terme 5/2011 - Direttore responsabile Paola Militano | Privacy
Effettua una ricerca sul Corriere delle Calabria
Design: cfweb

x

x