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purificazione e rinascita

L’acqua: la guerra, la vita, la morte

L’acqua, in Alvaro, è l’elemento primario, vitale, sacrale, liminare tra vita e morte, diluvio e fonte di memoria e di vita

Pubblicato il: 18/05/2025 – 10:34
di Vito Teti
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L’acqua: la guerra, la vita, la morte

Mi sono spesso detto che forse Cristina Campo, attenta alle emozioni sue a cospetto del suo mito letterario morente, non è riuscita (non ha voluto) a descrivere dettagli e particolari che io sarei stato felice di leggere. Come era il letto di Alvaro? Chi andava a trovarlo? E quale l’arredamento della stanza? E davvero nella camera da letto, o da qualche parte nella casa, c’era appesa l’immagine della Madonna di Polsi? Da piccoli indizi apparentemente insignificanti si può vedere come Alvaro restasse Alvaro anche sul letto di morte. Cristina Campo andava ogni giorno a vederlo, di pomeriggio lo affidavano a lei (perché?) e si intendeva con lui parlando con gli occhi. A volte lo faceva ridere e ci dice: «Quando gli do un sorso d’acqua e gli chiedo se è fresca mi sussurra “Perfetta”». La persona ammalata e agonizzante ha bisogno di bere, quasi per accostarsi all’elemento primordiale, per cercare ancora la vita. Ho visto persone morenti che cercavano l’acqua e la fonte dell’infanzia. Mio padre, sul letto dell’ospedale e poi a casa, prima di morire, cercava l’acqua di Dorico, un’acqua che non gli avevo mai sentito nominare e che era quella della fontana della sua infanzia (e della mia) e che adesso tornava nel momento in cui il suo corpo bruciava e le sue parole portavano nel mondo misterioso dell’altrove. L’acqua, in Alvaro, è l’elemento primario, vitale, sacrale, liminare tra vita e morte, diluvio e fonte di memoria e di vita. La donna che cammina con l’orcio dell’acqua appare quasi una figura archetipa e rivela una sensualità rigeneratrice. L’orcio si presenta come una sorta di oggetto sacro all’interno di una cosmogonia basata sull’acqua che genera e rigenera. Già nel libretto giovanile su Polsi sono dominanti la dimensione del mangiare insieme, dell’acqua come purificazione, del pellegrino come errante che cerca acqua fresca, verità e senso. Alvaro racconta la leggenda della donna che si riposò pregando la «Madonna affinché le facesse trovare un po’ d’acqua per dissetarsi. Come per incanto comparve ai piedi della donna una fontana freschissima che potrete vedere. A memoria di ciò s’impresse sul sasso l’effigie della Madonna».
In molte poesie grigioverdi, dove dialoga a tu per tu con la morte e sperimenta cosa significhi essere dinnanzi a un compagno morente, Alvaro mostra di restare ancorato a quel mondo di beni essenziali, naturali, sacri che ricorda anche al fronte, assicurandogli così un senso di presenza e di convinzione. Si veda, tra le tante, la poesia A un compagno:
«Se dovrai scrivere alla mia casa,/Dio salvi mia madre e mio padre, /la tua lettera sarà creduta/mia e sarà benvenuta./Così la morte entrerà/ e il fratellino la festeggerà. […] Dì loro che avevo goduto/Tanto prima di partire,/Che non c’era segreto sconosciuto/che mi restasse a scoprire;/che avevo bevuto, bevuto/tanta acqua limpida, tanta,/e che avevo mangiato con letizia,/che andavo incontro al mio fato/quasi a cogliere una primizia/per addolcire il palato».
Vincenzo Paladino nella monografia sullo scrittore, ricorda come la guerra di Alvaro si potrebbe qualificare in senso etnico-sociale, come guerra di popoli poveri e guerra proletaria, dove si sono trovati assieme, con lo stesso spirito di quando si procurano il pane e l’acqua, i contadini e i montanari, i fabbricatori di casa e i minatori, i facitori di argini e i costruttori di case di tutte le regioni d’Italia. La guerra è «la quintessenza della fatica umana più primitiva», un diluvio, un evento tragico e sconvolgente, una catastrofe che coinvolge allo stesso modo quanti arrivano dalla terra: quanti conoscono già la dura lotta per la vita e la soddisfazione dei bisogni primari. «Italiani del Nord» e «Italiani del Sud» al fronte scoprono assieme di essere allo stesso modo uomini ridotti alla pura e semplice sopravvivenza biologica. Il rapporto con la terra, la natura, la fatica faceva scoprire simili i contadini napoletani e piemontesi, veneti e calabresi, ed era questo legame, e il pensare dei contadini non a uccidere, come pensano i civili, ma «a resistere, durare, difendersi» che li rendeva, forse, più adatti alla guerra e alla salvezza, con la loro abitudine alla sofferenza e alla vita per la sopravvivenza. Alvaro in “Vent’anni” non scorge la diversità dei soldati nella diversa appartenenza geografica. La differenza è quella tra chi viene dalla terra e chi viene dalla città chi ha la conoscenza quotidiana della lotta per la sopravvivenza e chi vive in mezzo a sovrastrutture e a pregiudizi costruiti nel tempo, tra chi sente di essere di un unico alimento che sostanzia la terra, il cibo, il sangue, le piante, gli animali di cui si alimentano le persone e chi ha smarrito questo legame. «La guerra è un mestiere d’uomini che non si sono dimenticati la terra», dove si trovano «meglio coloro che sono abituati a vivere a contatto con la natura e con la fatica umana più dura».
L’immagine del diluvio arrivava ad Alvaro dalle acque torbide che rovinano e trascinano paesi, sconvolgono paesaggi, determinano fughe, fanno della Calabria una terra pericolante e in continua riparazione, rendono tutto provvisorio e fanno prosperare i gruppi dominanti. La «religione» dell’acqua lo porta a cogliere vicinanze tra la gente della sua Calabria, i contadini della palude pontina, della Turchia, della Russia, di cui scrive in indimenticabili libri di viaggio. Diacono, Rinaldo, Babel, gli sradicati, gli erranti, gli esiliati, gli uomini nel labirinto di Alvaro sono tutti dei moderni pellegrini in cerca di purificazione, appaesamento, rinnovamento, senso. Ai tempi della mia tesi di laurea mi sono messo pazientemente a segnare e a schedare (conservo ancora appunti e schede da qualche parte) i romanzi, i racconti, i saggi, le note di viaggio, le poesie dello scrittore: non c’è pagina dove ci sia un riferimento al cibo e all’acqua, alla ritualità e alla simbologia alimentare. Le opere di Alvaro ci hanno reso familiari: gli uomini che hanno fame e fuggono in montagna o in America per il pane; le donne che impastano pane o vanno ad acqua con l’orcio; il padre che da bere ai figli prima che si mettano a letto; figure di erranti ed emigranti che camminano con il pane; emigrati che attendono dai paesi le corriere con i prodotti inviati dai familiari rimasti; uomini e donne che mangiano e bevono assieme. In altri termini la convivialità, la sacralità, la religione, la “comunione” praticate o sognate, perse e di cui si ha nostalgia.
Nel 1986, all’Università della Calabria, nel corso di un incontro su Alvaro, parlai dell’acqua nell’opera dello scrittore. Alla fine mi venne incontro Massimo Alvaro, il figlio dello scrittore. Mi strinse la mano in un modo che comunicava gratitudine. Rimasi subito colpito dalla discrezione e dalla delicatezza di Massimo Alvaro. Mi parve subito un personaggio alvariano. Pensai, non so come, al padre di Corrado Alvaro. Qualche giorno dopo ho ricevuto una lettera, datata Roma 4-11-86. «Gentile professore, Trovo non facile fermare sulla carta i rapporti tra mio padre e l’acqua, certo perché si tratta di piccoli episodi, di brevi sensazioni che dette hanno un valore e scritte temono di rivelare una eccessiva semplicità e frammentarietà. Che dire del gesto raccolto con cui mio padre portava alla bocca un bicchiere d’acqua? Io me lo ricordo, un gesto sacrale. Rileggevo ieri una delle sue poesie grigio verdi; ne “A un compagno” si raccomanda ad un soldato di dire che il combattente ucciso prima di morire aveva bevuto “bevuto tanta acqua limpida, tanta”. Ricordo che mio padre, in campagna, faceva lunghe camminate quando veniva a sapere dell’esistenza di una fonte nelle vicinanze, le ho già detto [nel nostro incontro a Cosenza]dei momenti di stupore e di gioia quando vide nei Castelli romani, un esile getto incanalato da una foglia di castagno, me lo fece notare come fosse un qualche cosa di straordinario. Non è che cercasse l’abbondanza. Un anno andammo in vacanza in una vallata alpina e precisamente a Caldonasso, in Val Sugana. Naturalmente le nostre gite si svolgevano tra interminabili ruscelli e cascate e corsi d’acqua come si addice ad ogni buona località alpina. Ebbene, mio padre non aveva su tanta abbondanza l’attenzione, la cura che aveva fu la fonte solitaria, dispensatrice parca di bene. Se le capiterà di arrivare a San Luca, si faccia mostrare la fonte alla quale, un tempo, le donne attingevano l’acqua. Vi si arriva su un ripido sentiero che era poi percorso in salita, con i recipienti pieni sulla testa, il viaggio andava fatto più volte per assicurare la provvista alla casa. Chi si è lavato il viso con quell’acqua penso che abbia avuto di essa altra opinione dell’acqua che scende dal rubinetto. Voglia gradire questa scarna testimonianza come ringraziamento per il suo intervento a Cosenza. Cordialmente la saluto. Massimo Alvaro».
Sul letto di morte, mentre beveva un sorso d’acqua, rispondendo a Cristina Campo che gli domandava se l’acqua fosse fresca, mentre sussurrava «Perfetta», Alvaro avrà pensato all’acqua della sua infanzia e del suo paese, di Polsi e di tutti i pellegrini del mondo? Cristina Campo avrà capito che con quel «Perfetto» Alvaro esprimeva, magari, gratitudine, rimpianto, nostalgia, desiderio di purificazione e di rinascita. (redazione@corrierecal.it)

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