Calabria globalizzata, l’agonia silenziosa dell’identità e il sentiero dell’alternativa
È qui che la politica, tutta, senza steccati ideologici o appartenenze di bandiera, dovrebbe fermarsi e riflettere. Perché non si tratta di nostalgia, ma di necessità

Nelle viscere della Calabria interna, quella che ancora custodisce nella lingua e nei silenzi la memoria delle nonne e degli animali da soma, è avvenuto un cambiamento profondo, radicale, impensabile. È accaduto tutto senza che ce ne accorgessimo sul serio, come un terremoto che sgretola le fondamenta. Non ha fatto rumore, perché il rumore collettivo lo copriva la televisione prima, Internet l’ha poi reso un sottofondo e lo smartphone l’ha infine silenziato. La globalizzazione, che in Italia ha trovato uno dei suoi battesimi simbolici con la connessione domestica offerta da Tiscali nel cuore degli anni ’90, ha cancellato nel volgere di un ventennio secoli di antropologia popolare, relazioni sociali, ritualità e senso della misura.
A San Giovanni in Fiore, a Cotronei, a Serra San Bruno o ad Acri, la raccolta dei rifiuti si faceva con un’Ape e la verdura si comprava dall’uomo con l’asino alla corda. Non era il folclore, era la vita. Comprare un paio di scarpe era invece un rito familiare, pieno di raccomandazioni e verifiche. Un atto quasi sacro. Il rapporto con i parenti di sangue paterno era paradossalmente considerato più solido, più vincolante, a riprova dell’esistenza di una cultura dominante, sebbene al riguardo poco democratica. L’inverno era un tempo preparato durante l’estate, con provviste, conserve, bottiglie e non con abbonamenti a Netflix.
Oggi, nei paesi della Sila e dell’entroterra calabrese, gli scaffali ospitano gli stessi beni che si trovano nei centri commerciali di Cupertino. I bambini indossano felpe griffate e guardano TikTok da iPhone da 1000 euro, mentre nelle tavolate familiari non si parlano, ciascuno barricato dietro il suo schermo. Gli abiti tradizionali delle feste, i corredi ricamati a mano e le coperte lavorate con i telai artigianali sono diventati cimeli da esposizione museale, quando non finiti nell’umido per errore. È avvenuta è una trasformazione antropologica, prima ancora che economica. L’uomo del Sud, che si riconosceva nello scambio, nell’abbraccio, nel racconto condiviso e nella festa collettiva, è stato reso individuo isolato, chiuso nel recinto dell’apparire. La socialità si è ridotta a evento, e l’evento a post, che è anche prefisso di “posticcio”. Lo diceva già Pasolini, con inquietante anticipo: «L’omologazione culturale, la scomparsa delle differenze, sono i veri effetti del nuovo potere». E aveva ragione. Qui, dove una volta ci si ritrovava per discutere di sanità pubblica e tagli ai servizi, ora ci si ritrova per fotografare la torta di compleanno e scegliere la location con la migliore esposizione per Instagram.
Con il neoliberismo globalista, si è persa anche la capacità di dare valore alle cose. Una volta, recuperare un brano musicale richiedeva tempo, impegno, passione: si andava per esempio da Biagio e Antonio al Triangolo, negozietto di San Giovanni in Fiore, e si ordinava una cassetta personalizzata. Dopo si aspettavano giorni per averla. Oggi si clicca su Spotify e si salta in dieci secondi. Ma si salta anche la riflessione, il desiderio, il filtro critico.
La politica, le scelte civiche, i giudizi sulla qualità di una proposta o di una lavorazione artigianale soffrono dello stesso male: la fretta, il consumo, la dimenticanza.
«Quando tutto è merce, niente ha più valore», scriveva Zygmunt Bauman. E infatti anche i rapporti sociali sono diventati transazioni: si invita un compagno di classe solo se si fa festa, se c’è da spendere e da far vedere. Il senso della misura e l’etica della sobrietà sono stati sostituiti dalla logica dell’ostentazione. Perfino il compleanno è diventato un atto economico, non più comunitario. Finanche i bambini ne sono investiti, come se lo sguardo altrui fosse ormai l’unica misura di sé. Ciò che resta, tra le rovine del tempo nuovo, sono pochi tentativi resistenziali, come i corsi di ricamo e di panificazione dell’associazione Donne e Diritti, che a San Giovanni in Fiore prova a recuperare il sapere artigiano, la manualità, la bellezza del tempo umano. Impastare insieme, cucire assieme, è un modo per tornare a riconoscersi, per sottrarsi alla centrifuga impazzita del presente.
Ma chi, tra i politici che oggi corrono dietro agli algoritmi e alle piattaforme, avrebbe il coraggio di proporre un programma che riporti la gente nei centri storici, che favorisca le pratiche lente, che premi la convivialità senza profitto? Chi direbbe, senza vergogna, «rallentiamo, perché così possiamo guardarci di nuovo negli occhi»?
E allora è qui che la politica, tutta, senza steccati ideologici o appartenenze di bandiera, dovrebbe fermarsi e riflettere. Perché non si tratta di nostalgia, ma di necessità. Inserire nell’agenda pubblica – comunale, regionale, nazionale – programmi di recupero delle tradizioni e delle pratiche locali significherebbe dare nuova linfa alla socialità, ridurre l’ansia urbana, abbassare l’inquinamento, restituire tempo e relazioni alle persone. Si potrebbe favorire la nascita di laboratori artigiani nei centri storici, sostenere le filiere locali del cibo e della manifattura, riconoscere valore sociale alla trasmissione orale di competenze antiche. In breve, sostituire – almeno in parte – il valore delle merci con il valore dello scambio umano, che non è monetizzabile e che non può essere comprato. «Ogni civiltà nasce dalla capacità di raccontarsi», scriveva George Steiner. Se vogliamo salvarci, dobbiamo ricominciare a raccontarci partendo da ciò che ci appartiene. E forse scopriremo che non serve un influencer per sentirci visibili, ma un fuoco acceso in una cucina di paese, attorno a cui qualcuno ha il coraggio di parlare. E di ascoltare. (redazione@corrierecal.it)
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