La lunga notte di Alvaro
Stimato, conosciuto, tradotto all’estero, autore di libri famosi o di celebri pagine di viaggio (Turchia, Russia, Italia, Sud, Parigi), aveva avuto legami e rapporti con molti protagonisti della scen…

L’11 giugno del 1956, un lunedì di sessant’anni fa, moriva alle 4.50 a Roma Corrado Alvaro. Era nato a San Luca il 15 aprile 1895. Era uno degli scrittori, poeti, intellettuali più importanti e famosi d’Italia. Forse lo scrittore più presente sui giornali, sull’attualità, nel dibattito culturale. Stimato, conosciuto, tradotto all’estero, autore di libri famosi o di celebri pagine di viaggio (Turchia, Russia, Italia, Sud, Parigi), aveva avuto legami e rapporti con molti protagonisti della scena letteraria italiana ed europea.
Sulla «Stampa Sera» (11- 12 giugno) Francesco Berardelli ricorda il pudore e la dignità con cui Alvaro aveva affrontato «una malattia crudele, metastasi al polmone». «Due anni fa era stato operato dal prof. Valdoni di un tumore addominale che fu detto benigno. Era una pietosa bugia del sanitario ai familiari, la moglie Laura Babini, bolognese, il figlio Massimo, nato a Roma poco dopo il 1920. Valdoni sapeva che quella specie di tumore poteva ripresentarsi anche dopo dieci o dodici anni. Perciò tacque la verità. Ma il 22 marzo scorso il male si ripresentò e il clinico volle avvertire i congiunti. Soltanto Corrado Alvaro non conosceva la tremenda sentenza. Sperava nella guarigione. Diceva che ad una certa età gli uomini debbono pure ammalarsi. Aveva però il pudore del male. Amava gli amici, apprezzava i valori umani, eppure non era contento se qualcuno dei suoi più intimi saliva le scale di Vicolo del Bottino per andarlo a visitare. Aveva un senso biblico della vita e della forza dell’uomo, aveva della terra e della natura un antico misterioso culto. La malattia perciò era una debolezza da nascondere, una offesa al vigore dell’uomo. Questo vigore, non attenuato dal passare degli anni, era anche nei suoi scritti e negli ultimi, anzi erano taluni accenti che testimoniavano d’un inesausto ardore». Proprio nel giorno della morte, ricorda Berardelli, la moglie ha consegnato a Valentino Bompiani un «libro incompiuto»: “Belmoro”. «Di Alvaro, al di là della sua opera, resta il ricordo d’un uomo sensibile, coraggioso, onesto, libero».
Davvero Alvaro non conosceva la «tremenda sentenza»? Non lo sappiamo: certo non aveva rinunciato a vivere. Aveva da poco scritto nell’ “Ultimo Diario”: «E quando l’uomo non troverà un nuovo sapore, non farà una nuova scoperta in ogni suo atto, quando di ogni sua azione prevederà l’esito e la fine, allora la vita è veramente finita, allora è la morte».
Un nuovo sapore e una nuova scoperta, negli ultimi due mesi della sua esistenza, giungevano ad Alvaro da una giovane studiosa e colta poetessa, che pure in una breve e travagliata esistenza avrebbe scritto pagine tra le più belle del Novecento, Cristina Campo, nome di Vittoria Guerrini, oppure Vie, come usava firmare le sue lettere. La poetessa progettava la pubblicazione di una rivista letteraria «pura», che non sarebbe mai uscita, voleva tra i collaboratori, Alvaro conosciuto, nell’aprile di quel 1956, tramite Margherita Dalmati (nome d’arte di Maria-Niki Zoroyannidis) che aveva tradotto in greco la “Lunga notte di Medea” (1949). La Campo, come racconta in pagine toccanti, Gianni Carteri, uno dei più raffinati studiosi degli aspetti meno indagati dell’opera alvariana, andava a trovare Alvaro nella sua casa di Trinità dei Monti, quasi ogni giorno, «travolta in due mesi fino al limite di una vita». E racconta (come ricorda anche Roberto De Napoli, autore di saggi su Alvaro, la radio, la Rai) le ore trascorse accanto al letto dello scrittore nelle lettere del 21, 26 aprile e del 18 giugno indirizzate a Leone Traverso, letterato, germanista, traduttore, con il quale aveva una relazione tormentata, iniziata subito dopo la guerra a Firenze e di cui resta innamorata anche dopo l’interruzione del legame agli inizi del 1954. Sono lettere nelle quali affiorano il dolore per la malattia di Alvaro, la premura per «un bruttissimo ometto» che potrebbe farle da padre, la grande ammirazione per l’uomo di cui conosceva e amava le opere.
Un «ritratto intenso e partecipato dello scrittore di San Luca», Cristina Campo lo consegna, però, nelle lettere scritte all’amica Margherita Pieracci Harwell (Mita) (6, 13, 26 maggio e 25 giugno 1956) con la quale, con ogni evidenza si sente più a suo agio e più libera di raccontare un’amicizia, scrive Carteri, di «una purezza e profondità quasi sconcertanti e tali da lasciare un segno inequivocabile di “musicale testimonianza”; quasi una fiaba incantata in una rete di simboli e di sottili corrispondenze di veri e propri stati spirituali, che toccano le linee di due esistenze nelle quali le “antitesi si conciliano” in una limpidezza di scrittura accecante».
In una lettera del 13 maggio, Cristina Campo scrive all’amica: «Cara Mita, nulla di nuovo nella casa della Trinità. Un giorno cupo e uno meno cupo, quando tenebra e quando un lume, dietro la persiana che guardo sempre la sera…Queste sere di maggio, dolci e tremende, che sembrano scritte da Corrado Alvaro. Tutto questo tempo, del resto sembra scritto da Corrado Alvaro. Non solo la sua casa, sua moglie, il suo silenzio, ma tutta la città è la primavera [ … ] Io siedo sui gradini, al centro di quel racconto fluido e intricato; e dietro le persiane c’è la soluzione del geroglifico, c’è la risposta a tutte le mie domande. Ma continua, sera per sera, il silenzio». Sono le atmosfere romane – lo nota ancora Carteri – descritte da Alvaro in tante opere e soprattutto nell’ “Itinerario Italiano” (1941) e che, davvero, lo scrittore sembra aver costruito –quasi in previsione della lunga notte di addio che lo avrebbe atteso in una città dove come tutti i meridionali aveva trasferito il suo paesaggio interiore (lo spirito di espansione e di avventura, mentre i settentrionali vi avevano trasferito il loro senso della vita stabile e sociale).
In un’altra lettera del 28 maggio all’amica Margherita Pieracci, Cristina Campo scrive: «Alvaro non sta né meglio né peggio. Vado ogni giorno a vederlo. Spesso lo affidano a me, nel pomeriggio. Non parla che poco, ma ci intendiamo con gli occhi. Ciò che riesce a dire è importante [… ]. Anch’io gli dico certe cose. Spesso lo faccio ridere. E quando ride chiude gli occhi ed è bello – come un intarsio cinese – quelle poche parole che dice sono scelte, da scrittore. Quando gli do un sorso d’acqua e gli chiedo se è fresca mi sussurra “Perfetta” [… ]. Dorme con un sorriso un po’ ironico, sapiente. Io nella poltrona, leggo un suo libro. Da un lato il corpo, assopito, lontano. Dall’altra lo spirito appassionato, che parla. Tutto è come un papiro lacerato, un frammento: lo spazio vuoto terza dimensione e ciò che rimane di una eloquenza, una forza da far tremare».
L’acqua, in Alvaro, è l’elemento primario, vitale, sacrale, liminare tra vita e morte, diluvio e fonte di memoria e di vita. La donna che cammina con l’orcio dell’acqua appare quasi una figura archetipica e rivela una sensualità rigeneratrice. L’orcio si presenta come una sorta di oggetto sacro all’interno di una cosmogonia basata sull’acqua che genera e rigenera. Già nel libretto giovanile su Polsi sono dominanti la dimensione del mangiare insieme, dell’acqua come purificazione, del pellegrino come errante che cerca acqua fresca, verità e senso. Alvaro racconta la leggenda della donna che si riposò pregando la «Madonna affinché le facesse trovare un po’ d’acqua per dissetarsi. Come per incanto comparve ai piedi della donna una fontana freschissima che potrete vedere. A memoria di ciò s’impresse sul sasso l’effigie della Madonna».
Nel 1986, all’Università della Calabria, nel corso di un incontro su Alvaro, parlai dell’acqua nell’opera dello scrittore. Alla fine mi venne incontro Massimo Alvaro, il figlio dello scrittore. Mi strinse la mano in un modo che comunicava gratitudine. Rimasi subito colpito dalla discrezione e dalla delicatezza di Massimo Alvaro. Mi parve subito un personaggio alvariano. Pensai, non so come, al padre di Corrado Alvaro. Qualche giorno dopo ho ricevuto una lettera, datata Roma 4-11-86. «Gentile professore, Trovo non facile fermare sulla carta i rapporti tra mio padre e l’acqua, certo perché si tratta di piccoli episodi, di brevi sensazioni che dette hanno un valore e scritte temono di rivelare una eccessiva semplicità e frammentarietà. Che dire del gesto raccolto con cui mio padre portava alla bocca un bicchiere d’acqua? Io me lo ricordo, un gesto sacrale. Rileggevo ieri una delle sue poesie grigio verdi; ne “A un compagno” si raccomanda ad un soldato di dire che il combattente ucciso prima di morire aveva bevuto “bevuto tanta acqua limpida, tanta”. Ricordo che mio padre, in campagna, faceva lunghe camminate quando veniva a sapere dell’esistenza di una fonte nelle vicinanze, le ho già detto [nel nostro incontro a Cosenza]dei momenti di stupore e di gioia quando vide nei Castelli romani, un esile getto incanalato da una foglia di castagno, me lo fece notare come fosse un qualche cosa di straordinario. Non è che cercasse l’abbondanza. Un anno andammo in vacanza in una vallata alpina e precisamente a Caldonasso, in Val Sugana. Naturalmente le nostre gite si svolgevano tra interminabili ruscelli e cascate e corsi d’acqua come si addice ad ogni buona località alpina. Ebbene, mio padre non aveva su tanta abbondanza l’attenzione, la cura che aveva fu la fonte solitaria, dispensatrice parca di bene. Se le capiterà di arrivare a San Luca, si faccia mostrare la fonte alla quale, un tempo, le donne attingevano l’acqua. Vi si arriva su un ripido sentiero che era poi percorso in salita, con i recipienti pieni sulla testa, il viaggio andava fatto più volte per assicurare la provvista alla casa. Chi si è lavato il viso con quell’acqua penso che abbia avuto di essa altra opinione dell’acqua che scende dal rubinetto. Voglia gradire questa scarna testimonianza come ringraziamento per il suo intervento a Cosenza. Cordialmente la saluto. Massimo Alvaro».
Sul letto di morte, mentre beveva un sorso d’acqua, rispondendo a Cristina Campo che gli domandava se l’acqua fosse fresca, mentre sussurrava «Perfetta», Alvaro avrà pensato all’acqua della sua infanzia e del suo paese, di Polsi e di tutti i pellegrini del mondo? Cristina Campo avrà certo pensato che con quel «Perfetto» Alvaro esprimeva, magari, gratitudine, rimpianto, nostalgia, desiderio di purificazione e di rinascita.
Cristina Campo racconta le ultime ore di Alvaro in una lettera del 25 giugno: «Cara Mita, mi scusi se ho tardato a risponderle. Ho voluto vedere quasi ogni giorno la signora Alvaro. Di Alvaro mi è sempre più difficile dire. Tento appena di decifrare. Ero là tutta l’ultima notte, per molte ore sola con lui. La Signora, quella notte, non era in grado di assisterlo. Ebbe il grande eroismo (per una donna della sua tempra) di rimanere quasi sempre distesa, nella sua stanza, pregando. Fu una notte molto lunga. Ho ancora negli orecchi il brusio della pioggia e il tuono del suo respiro, fino alle 4, 50.[…] Non so dirle se se n’è andato sereno”. Dalle 20, 30 non era più cosciente (non almeno alla nostra presenza). Se n’è andato ad occhi chiusi, dopo una lotta che appariva una suprema concentrazione. Certo l’agonia non è che il simbolo di ben altro e non sapremo, finché viviamo, in quali zone si svolga. Aveva, quando è spirato, la febbre a 41,7. Lo tenevo tra le mie braccia, già esanime mentre la donna che ci aiutava gli infilava il pigiama azzurro: e ancora bruciava, bruciava tutto come i bambini che dormono con la febbre[… ]. All’alba era tutto in ordine. La Signora ha potuto vederlo nella sua bellezza, giovane come ai tempi del loro matrimonio. Lo ricopriva una coperta bianca, il sole giocava fra le rose sul comodino. I ragazzini già si rincorrevano, sui gradini della Trinità dei Monti. Qualcuno ha preso la maschera del suo viso. Ma lei lo troverà in un Suo racconto, come l’ho visto io: “Come un luogo sacro ed amato, qualcosa di terribile e di maestoso, che ci ha fatto soffrire …”. La Signora lo baciava sulle labbra, gli diceva con un sorriso: arrivederci caro».
Il 26 giugno 1956 in un’altra lettera alla Pieracci cerca di segnalare le opere dove Alvaro aveva “celato” o “svelato” le persone da lui amate, i suoi familiari, la sua casa e i suoi paesaggi. «Mia cara, a lei sola ho parlato di Alvaro in un certo modo e so che non lo farò una seconda volta. Le ho spedito anche i “Racconti”. Vorrei leggesse: “Madre di paese” e “Cesarino è già grande”, subito dopo “La Cavalla nera”. E anche “Due voci, due ombre” che è tutto un racconto d’echi, come la loro casa. Così avrà conosciuto tutti: Corrado, Laura, Massimo, la nonna, e la casa. La scalinata, e le terribili primavere di Alvaro, le troverà un po’ dappertutto; in “Un profumo sottile”, nella “Bambina rapita”, in “Gente di cuore”…».
Mi sono più volte trovato anche io a cercare nelle opere di Alvaro aspetti della sua vita privata: gli amori, i dolori e i sentimenti dell’uomo. Frequentando, nel tempo, l’universo alvariano e avendo intrattenuto intensi legami culturali con il fratello don Massimo, in parte con il figlio Massimo, e anche con altri discendenti dello scrittore desideravo solo capire meglio le opere e la scrittura del «poeta dei segreti». Ho studiato ambienti familiari e culturali, ho indagato l’universo agropastorale di riferimento, ripercorso alcuni luoghi da lui frequentati e attraversati: ho spesso compiuto un’opera di “immedesimazione” con l’autore che, con la sua scrittura, mi ha sempre accompagnato, anche per la sua statura morale e per la profondità antropologica della sua scrittura, quasi con premurosa ossessione, come un’ombra benevola. Non so se ad Alvaro sarebbero piaciute le lettere della Campo: avrebbe, forse, apprezzato l’affermazione che le torna «sempre più difficile dire» parlare di lui, tentando «appena di decifrare» lo scrittore, quel suo arrendersi rispetto al mistero dell’agonia. Forse – ma questa è una mia congettura – Alvaro non avrebbe condiviso l’invito a trovare nelle sue opere un riflesso puntuale della vita reale. Alvaro si era opposto con tenacia (e anche con una certa abilità ) al tentativo di Domenico Lico, amico di giovinezza e di studi al Galluppi di Catanzaro che cercava di pubblicare suoi scritti, lettere e poesie giovanili e raccontare la loro vita di studenti. Alvaro, come scrive in una lettera del 30 novembre 1940 (cfr. “Un paese e altri scritti inediti 1911-1916”, a cura di V. Teti, con un saggio sulle poesie giovanili di Pasquale Tuscano, Donzelli 2015,) non approva che l’amico di gioventù si sia messo «a scrivere a questo e a quello chiedendo di me e del tempo trascorso» e lo invita a non tentare «più un simile commercio epistolare» e di non andare «frugando tra le memorie d’un uomo modesto». Lo stesso Lico ricorda che in un incontro avuto in Calabria con Alvaro nel 1941, all’indomani della morte del padre, quando domanda all’amico di gioventù se Attilio Bandi di “Vent’anni” (1930) fosse Aldo Fortuna si sente rispondere, con un sorriso, che non si può dire.
La scrittura di Alvaro ha una forte dimensione autobiografica. Per lo scrittore, però, l’autobiografia si trasforma in finzione, riscrittura della propria vita. La scrittura trasfigura le esperienze vissute. Alvaro non amava, sicuramente, che i propri fatti privati e familiari (spesso amplificati da dicerie, pettegolezzi e invidie dei paesani nei confronti del padre) potessero fornire una lettura errata degli esiti narrativi e stilistici delle sue opere. La vita è un segreto e un mistero che solo chi l’ha vissuta è in grado di nascondere, trasfigurare, trasformare in favola, poesia, dramma. In “Il viaggio” (1942) racconta il legame forte e complicato avuto con il padre, un uomo dal carattere forte, dalle mille risorse e fantasia, e ricorda cattiverie e invidie nei confronti di suo padre, solo perché aveva voluto avviare una scalata sociale. «Di quella lotta continua non dirò molto; basti che quando un mio fratello, il secondo di noi, morì, i nostri nemici fecero festa perché uno era caduto. L’invidia è il peccato mortale delle regioni povere: nei migliori diventa emulazione, ambizione, sprone alla conquista […] Perdono ai nostri nemici perché è gente del mio stesso sangue, che io amo e amerò sempre. Compiuta l’opera, mio padre fu come disoccupato, non avendo altro scopo per sacrificarsi, e avendo preso, del sacrificio, i modi più commoventi, la sua dignità». Scrive Umberto Bosco in “Pagine calabresi” (1975) scrive: «Alvaro è sempre autobiografico, cioè lirico, ma trascende sempre il suo io, lo dissolve negli altri; negli altri, capisce se stesso. Il suo autobiografismo è il contrario dell’egocentrismo, la negazione del narcisismo». Alvaro stesso nelle “Note autobiografiche”, in “Ultimo Diario” (1959) avverte: «Il fatto dell’autobiografia nei libri è da indagare con molta cautela. Quanto a me, mi seccherebbe molto riscrivere quello che ho veduto. A mano a mano che passano gli anni mi distacco sempre più da quella poetica, e siccome sono nell’età dei ricordi e dei ritorni, cerco di ricordare quello che avrebbe potuto accadere, quello che avrei desiderato accadesse». Anche i suoi diari e i suoi scritti dichiaratamente autobiografici e personali, persino le sue lettere private a donne (come quelle a Ottavia Puccini, a Laura), ad amici, a scrittori, a editori hanno il dono di trasformare la vita in letteratura. D’altra parte, per lui la scrittura era vita. Anche Giovannino Russo, il grande meridionalista, autore di “Baroni e contadini”, che frequentò Alvaro negli ultimi anni di vita e che lascia immagini bellissime delle loro passeggiate serali nella Roma attorno a piazza di Spagna, scrive: «È un caso raro non riuscire a distinguere la persona di uno scrittore dai suoi scritti. I gesti, i ragionamenti, la timidezza, persino certi silenzi dei calabresi si ritrovano nei romanzi, nei racconti. Nelle riflessioni, nei diari di Alvaro. Questa corrispondenza tra sentimento e arte, tra vita e scritti, questa “sincerità” lo differenziavano in maniera netta dagli altri della sua generazione. Quando ascoltava qualcuno sembrava che avesse sempre l’orecchio teso a cogliere un senso nascosto del discorso, come per paura che gli sfuggisse anche un granello di verità» (Giovanni Russo, “Nella terra estrema”, con un saggio introduttivo di Vito Teti, Rubbettino, 2013, p. 122). Del “restare” calabrese di Alvaro anche mentre “fugge” nel mondo o cammina in cerca di nuovi appaesamento, ha lasciato una bellissima descrizione Pietro Pancrazi, che fa riferimento a una conferenza di Alvaro a Firenze (che poi diventerà “Calabria”, 1931).
«Qualche settimana fa ho inteso Corrado Alvaro parlare in pubblico in una illustre sala fiorentina, che è sempre per uno scrittore non toscano una bella prova[…] Parlava della sua Calabria, e calabrese restò. Con quella sua faccia che sembra un pugno chiuso visto di profilo, si pose di fronte alla sala e per un’ora disse il fatto suo… cosa su cosa e quasi con un senso di necessità. Ci aveva messo le mani dentro e sembrava intridere una farina, impastare un pane. Sparpagliava lontano le sue impressioni, i ricordi, i proverbi, le figure della sua terra, li lasciava andare; e poi a un tratto, con un accenno […]della mano tozza, li raccoglieva, li ribadiva a sé. Riapriva, poi, la mano di taglio, a mezz’aria, e gli ridava la via. Diceva e tornava a dire […] Il pubblico intese. Nell’oratore che voleva ma non riusciva a staccarsi dal tema, avvertì qualcosa d’insolito, una verità, una poesia[…]. Scoppiarono, alla fine, a due tre riprese, quegli applausi fitti, secchi, che si fanno a gola stretta. L’oratore in piedi si illuminò un momento appena, e quasi di stupore; poi si richiuse, e venne via con le braccia lente e il passo lungo del calabrese che ha ancora molto da camminare».
Ed è ancora Giovanni Russo, con il quale ho avuto la fortuna di rifare, in anni recenti, le strade romane delle sue passeggiate con Alvaro, a lasciarci un toccante ed emblematico ricordo (ivi, p. 123) dei funerali di Alvaro: «Alvaro morì all’alba dell’11 giugno 1956 nella casa di piazza di Spagna. Il giorno del funerale il sole scottava come in Calabria. Dal portone uscirono il prete, un chierico che reggeva il Crocifisso, due chierichetti. La bara di legno chiaro venne caricata su un semplice carro dietro al quale si allinearono, vestiti di nero, i parenti venuti da San Luca: la sorella col viso sconvolto e gli occhi arrossati per le lacrime, il fratello sacerdote tanto a lui somigliante, il figlio, la vedova. Il corteo si avviò verso la chiesa di Sant’Andrea delle Fratte. Il tratto è lungo quanto il corso di un piccolo paese calabrese. Passava per piazza di Spagna un funerale meridionale».
Nota
Con questo scritto, che esce alla vigilia dell’anniversario della morte di Corrado Alvaro (Roma, 11 giugno 1956), sospendiamo la rubrica “Piccola Biblioteca Alvariana”, a cura di Vito Teti e Francesca Tuscano, uscita sul “Corriere della Calabria”, che ringraziamo per la sua convinta accoglienza e la sua attiva collaborazione. Abbiamo cercato in questo modo, senza mezzi, con generosità, senza tanti clamori, ricordare Alvaro nell’anno in cui si celebravano i 130 anni della sua nascita a S. Luca. Un grazie di cuore a studiosi e scrittori che hanno collaborato a questo progetto, che è leggibile sul sito del giornale.