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Quando la Calabria era altrove: identità, suolo e nomi nell’opera di Francesco Lopez

Perché la Calabria, scrive Lopez, è pietra scavata dall’acqua ed è anche la voce che quella pietra è in grado di far risuonare. Ma quella voce, oggi, rischia di non avere più chi l’ascolta

Pubblicato il: 13/06/2025 – 7:24
di Emiliano Morrone
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Quando la Calabria era altrove: identità, suolo e nomi nell’opera di Francesco Lopez

Inciso su una mappa bizantina o sussurrato da un monaco di lingua greca, un nome antico può dire più della storia di mille cronache. “Kalabría” era il Salento, oggi è la nostra regione. Nessuno, finora, aveva messo in fila le tracce di questo spostamento simbolico e politico, linguistico e geografico. Lo ha fatto Francesco Lopez, calabrese di Altilia di Santa Severina (Kr), dottore di ricerca e autore di un volume uscito per i tipi della Brill, casa editrice accademica tra le più prestigiose al mondo, sostenuto da istituzioni cinesi e patrocinato dalla Jao Tsung-I Academy of Sinology di Hong Kong. Il titolo è The Historical Landscape of Ancient Kalabría. Balkan and Aegean Linguistic Influences (Il paesaggio storico dell’antica Kalabría. Influenze linguistiche balcaniche ed egee, nda). Il libro è in inglese, ma parla di noi e si può scaricare gratis sul sito Brill.com.
L’opera nasce da una lunga ricerca iniziata nel 2015, quando Lopez, calabrese di origini e studioso di Storia della scienza, si confronta a Pisa con il linguista Francesco Perono Cacciafoco. Da quell’incontro prende forma un progetto che fonde filologia, storia del paesaggio e linguistica indoeuropea, fino alla pubblicazione accademica con Brill, sotto la supervisione della professoressa Carlotta Viti, full professor nell’Université de Lorraine a Nancy (Francia), dove insegna Storia e culture dell’Antichità e del Medioevo, e titolare di un prestigioso incarico nell’Università Normale di Pechino, campus di Zhuhai: full professor nel Research Centre for History and Culture.
L’ispirazione più profonda, confessa Lopez in una recente intervista all’agenzia Adnkronos, affonda però nella sua esperienza personale: 40 anni trascorsi ad Altilia di Santa Severina, accanto a un antico monastero dedicato alla Madonna della Calabria, e l’impegno civile e culturale nel Centro studi Cornelio Pelusio Parisio.
Lopez ci racconta una storia che è insieme filologica, storica e geografica. La Calabria, prima di essere la nostra Calabria, era altro: era Messapia, era Salento. Solo nel VII secolo dopo Cristo, in piena età bizantina, il nome si trasferisce da una sponda all’altra dell’Italia meridionale. Il passaggio è toponomastico e assieme politico, simbolico, culturale. Lopez lo ricostruisce con metodo interdisciplinare: linguistica, archeologia, topografia storica, etnografia. Il risultato è un ritratto di una terra che non ha mai avuto confini stabili, e forse neppure un’identità univoca. Una terra che si è fatta chiamare in tanti modi, e che tante volte ha dovuto accettare che a nominarla fossero altri.
Il nome Calabria, nella forma greca Kalabría, indicava originariamente il Salento, tra Taranto, Brindisi e Santa Maria di Leuca. Solo quando i Longobardi occuparono la Puglia, i Bizantini spostarono il nome verso sud, adottandolo per la regione che fino ad allora era chiamata Brutium. Testimonianze di questo passaggio si trovano già in documenti del 653 d.C. e poi nei concili ecclesiastici, fino alla distinzione netta operata dal cronista Teofane Isauro, nell’VIII secolo, tra Loggibardía, Kalabría e Sikelía.
In questo libro l’etimo “Calabria” è tutt’altro che una curiosità da appendice: è la chiave per comprendere una frattura profonda, una continuità spezzata, un’identità che si è sovrapposta ad altre identità. La radice kar o kal – da cui deriverebbero Kalabria, Kalabroi, Kalavria – evoca le rocce, le pietre scavate dall’acqua, le gole scoscese, i porti naturali, le coste tormentate. Il nome sarebbe quindi preellenico, unito al suffisso bria/uria che designa la terra, il paese, la regione. Si tratta allora di una denominazione radicata nella morfologia carsica dei luoghi: calanchi, trulli, insenature naturali, scogliere. Il nome dice ciò che siamo: terra dura, «franta» avrebbe detto il compianto preside di San Giovanni in Fiore Giuseppe Bernardi, scavata ma sempre accogliente, sempre attraversata.
Chi siamo allora noi calabresi, figli di un nome prestato? Siamo una comunità che ha trasformato quell’eredità in appartenenza. Come scrisse Gerhard Rohlfs, il grande dialettologo tedesco che attraversò la Calabria a piedi e ne trascrisse minuziosamente i dialetti, qui si parla una lingua che conserva tracce antichissime mescolate a innovazioni sorprendenti. Non solo italiano regionale, ma greco, osco, latino, albanese, grecanico, echi normanni e provenzali: una Babele compressa in poche vallate. Secondo Rohlfs, i nostri dialetti provano che la Calabria è una terra in cui il tempo non scorre in linea retta.
Lo stesso intuì John Trumper, linguista, antropologo, osservatore acuto delle parole e delle cadenze. Trumper – peraltro il celebre traduttore in un dialetto del Cosentino del testo beckettiano Finale di partita – ha spiegato che nei lessici calabresi sopravvivono le rotte della transumanza, le migrazioni dei popoli dell’Adriatico, le parole dei pastori illiri e dei mercanti greci. Anche lui, come Lopez, ha letto il territorio attraverso i nomi, e i nomi attraverso il suolo.
E proprio qui, nella convergenza tra suolo e canto, si apre un altro collegamento: quello, apparentemente azzardato, con la canzone Le radici ca tieni, dei – guarda caso – salentini Sud Sound System, in cui il ritmo reggae rafforza a mio parere una dichiarazione d’identità (meridionale). Le radici che possiedi sono quelle che ti connettono al passato e che ti sfidano nel presente. Le radici possono essere un’àncora oppure una catena; possono nutrire oppure imprigionare. La Calabria raccontata da Lopez è entrambe le realtà: una terra con radici antiche e, insieme, una terra che ha dovuto accettare una nuova radice, un nome venuto da lontano.
Questa ricerca, rigorosa e visionaria, ci riguarda più di quanto pensiamo. In un tempo in cui la Calabria rischia di ridursi a narrazione marginale, a limite geografico, il libro di Lopez ci costringe a guardare indietro per capire dove vogliamo andare: non già per nostalgia ma per ricostruzione: per capire che siamo fatti anche dei nomi che altri ci hanno dato e che abbiamo saputo trasformare in storia.
Poi c’è un’altra frattura che si sta consumando sotto i nostri occhi, che Lopez non analizza ma che il suo libro ci invita, sono convinto, a considerare. Alludo alla scomparsa accelerata dell’identità collettiva, dell’appartenenza a un tessuto culturale, sociale, antropologico. Mi riferisco, cioè, a una perdita silenziosa sospinta dall’omologazione imposta dal neoliberismo globalista, che trasforma ogni territorio in un mercato, ogni città in un centro commerciale, ogni parola in un codice da monetizzare. È un processo favorito da un’antropologia della disgregazione, in cui le relazioni si contraggono, si digitalizzano, si svuotano di memoria.
Non è più solo la Calabria a mutare nome. È la Calabria che non si riconosce più: nei suoi spazi fatti di assenze, nei suoi centri storici deserti nei fine settimana, nei suoi paesi che si svuotano nei giorni di festa o d’estate perché gli anziani, da qualche anno, raggiungono figli e nipoti residenti al Nord. Lo spazio urbano cambia volto, come pure quello rurale. Allora non c’è più la panchina con le voci, la piazza con le discussioni, il cortile con le storie tramandate.
È in atto una trasformazione economica e simbolica. Si perde la lingua dei padri e il silenzio delle madri. Si smarrisce il senso del tempo condiviso, del rito, della comunità. E allora il lavoro di Lopez, con la sua minuziosa ricostruzione di come i nomi viaggiano e mutano, ci mostra indirettamente che ogni identità va difesa nella sua complessità, ma anche nella sua fragilità quotidiana. Perché la Calabria, scrive Lopez, è pietra scavata dall’acqua ed è anche la voce che quella pietra è in grado di far risuonare. Ma quella voce, oggi, rischia di non avere più chi l’ascolta. (redazione@corrierecal.it)

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