Coppie Mitiche, o Penelope vs Ulisse 4.0 secondo Enrico Lo Verso
“Coppie Mitiche” con Enrico Lo Verso, in scena il 27 giugno alla Galleria Nazionale di Cosenza per EXIT, il festival ideato da Piano B

COSENZA Orfeo ed Euridice, Ulisse e Penelope, Apollo e Dafne, Amore e Psiche, e forse anche altri. Sono tra le coppie più simboliche della mitologia, e le loro storie continuano a parlare a noi – e di noi – della dimensione delle nostre vite e delle relazioni che stabiliamo. Ognuna di esse riflette dinamiche comuni: l’amore, la perdita, il tradimento, il sacrificio, l’ambizione, l’umanità nella sua forza e nella sua fragilità. Dovremmo provare a immaginare cosa accadrebbe se quegli archetipi si spostassero nel nostro presente. Se, per esempio, l’amore di Orfeo ed Euridice fosse nato in chat, dove il ricordo si fa ossessione. O se Apollo e Dafne aprissero una riflessione sul consenso e sull’autodeterminazione. Si muove da qui Coppie Mitiche, lo spettacolo scritto e diretto da Alessandra Pizzi, con Enrico Lo Verso, Alessia D’Anna e le musiche dal vivo di Mirko Lodedo. Sarà in scena il 27 giugno alla Galleria Nazionale di Cosenza per EXIT – Deviazioni in arte e musica, il festival ideato da Piano B, in anteprima nazionale. È lo stesso Enrico Lo Verso a guidarci nel percorso che ha portato alla nascita dello spettacolo, attraversando la letteratura dei miti, il lavoro con la regista Alessandra Pizzi e la costruzione dei personaggi. Un viaggio raccontato con la leggerezza che si confà a un bravo attore, tra ironia e misura, e che – come spesso accade in teatro – riserva più di una sorpresa.
Come nasce il tuo coinvolgimento in Coppie Mitiche e qual è il percorso che ti lega al lavoro di Alessandra Pizzi?
«Questo spettacolo nasce da una collaborazione con Alessandra Pizzi che dura ormai da quasi dieci anni, perché a un certo punto avevo deciso che non avrei più fatto teatro. Poi invece mi fece leggere il suo adattamento di Uno, nessuno e centomila di Pirandello. Mi piacque così tanto che da quel momento non ci siamo più fermati, fino a fare – in nove anni – 350 repliche, diverse anche nel Cosentino. Abbiamo messo in scena altri spettacoli, sempre progettati da Alessandra, come Coppie Mitiche, lo spettacolo che faremo a Cosenza per il festival EXIT. La mission di Alessandra è rileggere i classici, riportare la letteratura a teatro, come disse una volta pure Pirandello».
La letteratura a teatro, perché?
«I libri uno se li può leggere a casa. Anche il teatro lo si può leggere a casa, e in quel caso diventa letteratura. Ma se lo fai in teatro, devi dargli vita, devi farlo rinascere, devi rileggerlo con i filtri tuoi e con quelli di chi potenzialmente ti verrà ad ascoltare, ti verrà a vedere. Devi parlare un linguaggio comune, devi toccare, devi emozionare. Insomma, il testo deve essere un veicolo per arrivare allo spettatore».
Nella versione di Coppie Mitiche, pensata da Alessandra Pizzi, c’è qualcosa che ti ha colpito del modo in cui lei ha riletto questi miti?
«È un’opera di umanizzazione molto bella della pagina scritta. Poi, io ho fatto il liceo classico e quindi sono cresciuto a Siracusa, fra un Tempio di Giove e un teatro greco, e per me i miti sono attuali, come lo sono pure per Alessandra».
E allora, cos’è che vogliono ostinatamente raccontarci i miti?
«Dei miti del classico, noi portiamo in scena anche le Metamorfosi di Ovidio e l’Apologia di Socrate di Platone, ma in modo davvero molto moderno. Mediamente, nessuno del pubblico si aspetta un allestimento di quel tipo con quel testo. Però poi li vediamo molto colpiti dal fatto che, nei miti che raccontiamo, è racchiuso già in partenza tutto quello che noi viviamo oggi. Faccio un esempio: nelle Metamorfosi di Ovidio parliamo di dei, messaggeri, ninfe… ma poi in realtà si parla di stupri, di incesti, di guerre, di pene inflitte, del potere che chiude la bocca a giornalisti in modo violento – per esempio Anna Politkovskaja –, dei viaggi della speranza con il bambino morto sulla spiaggia. Ecco, si parla di tutto questo. E adesso, con Coppie Mitiche, che è tratto dal libro di Luigi Malerba Itaca per sempre, si racconta del rapporto uomo-donna».
Ogni coppia, tra i miti che portate sul palco, racconta un archetipo universale. C’è una di queste storie in cui ti sei ritrovato più profondamente come uomo e come attore?
«In tutte, perché ognuna di queste storie ti smuove un sentimento, un’emozione, ti dà un brivido che poi è vitale. È quello che dà un senso al fatto che tu sia lì a portare una parola allo spettatore, una frase, un pensiero, una pagina. Io non so recitare le cose che non mi piacciono. Mi vergogno a dirle, e non mi si sente quando parlo. Quindi, se sono in scena con una cosa, è perché ci credo, perché voglio condividerla con gli altri».
Abbiamo bisogno di tornare ai miti per parlare di amore, perdita, attesa, identità. Perché? Non possiamo dirlo con altre parole?
«Perché forse abbiamo problemi a trovare il parcheggio, perché forse dobbiamo prendere una cosa al supermercato o dobbiamo andare con un altro. Forse la vita ci fa perdere un sacco di tempo su cose che sono fisiche, tecniche, pragmatiche. E invece, nel momento in cui ti siedi in una poltrona a teatro, hai un momento tuo, solo tuo, di riflessione, di ascolto. E dall’ascolto nasce il pensiero, nasce l’arricchimento, l’evoluzione di una persona».
Quindi?
«La storia di Ulisse l’abbiamo sempre raccontata come “la storia di Ulisse”, ma c’è anche la storia di Penelope. E la storia di Penelope è sempre stata raccontata da un uomo. In Coppie Mitiche la racconta invece Penelope. Mi chiedi se ci sia bisogno di tornare al mito per capire quello che ci succede oggi? A teatro hai un momento in cui sei rilassato, in cui sei piacevolmente preso da un racconto, dalla possibilità di vedere delle cose cui magari, distrattamente, non hai fatto caso prima. E là diventi non più uno spettatore passivo, ma diventi attivo, perché prendi parte a quello che succede sulla scena, perché ti tocca dentro. Quindi quello che vedi, automaticamente, non è più sulla scena: è dentro di te».
E ciò che si ascolta tocca un po’ tutte le sfere, la testa, la pancia, il cuore. Perché a volte ci rendiamo conto che quelle parole pronunciate stanno parlando di noi.
«Sì, è così infatti».
Abbiamo parlato di Penelope, ma non ancora di Alessia D’Anna, che la interpreta. Che clima avete creato insieme per questo spettacolo?
«Ah, perfetto! Litighiamo continuamente, perché io dico che Ulisse deve essere più forte e lei dice: “Mah, t’attacchi!”. E in scena ci facciamo tutta una serie di piccole cattiverie».
No, magari sono piccole scaramucce!
«È il gioco delle parti, il tentativo di prevalere l’uno sull’altra e viceversa. Non so se conosci l’organizzazione sociale delle galline (ride di gusto), ma è un’organizzazione sociale molto strutturata. Lo so che può venire da ridere! Nei pollai c’è sempre una scala appoggiata al muro. E noi, Alessia ed io, facciamo sempre in modo che il nostro personaggio sia quello che sta più in alto nella scala. Una sfida vera che in realtà esiste solo sul palcoscenico, e poi intanto ci scherziamo pure fuori».
Ulisse pensiamo di conoscerlo, ma Penelope chi è realmente?
«Penelope è un personaggio magico, perché mentre Ulisse girava il mondo (e per fare un braccio di mare “il grande navigatore” ci metteva dieci anni), Penelope stava lì con una tela, che era intessuta forse dalle Parche stesse. E tagliando il filo di questa tela, lei non invecchiava mai…».
Questa è una metafora bellissima. E si sente che è un lavoro che ti piace. È un criterio per scegliere i testi su cui lavorare? Cosa cerchi nei progetti che ti propongono?
«Passione. Sincerità, onestà ed emozione».
Se fossi tu a fare il lancio dello spettacolo per invitare il pubblico a venire?
«Io avrei fatto cambiare il titolo in Penelope vs Ulisse 4.0. Immagini? Ognuno penserebbe: “Oddio, che sta succedendo da quelle parti?”. Perché non possiamo non tener conto del voyeurismo insito in ciascuno di noi. Tutti abbiamo la curiosità di vedere una coppia che litiga, sperando che non ci siano conseguenze gravi…
La cosa particolare di questo spettacolo è che il pubblico si siede pensando di essere a teatro a vedere una cosa classica. All’inizio è un modo di parlare molto classico, molto aulico. Poi, piano piano, ti accorgi che in scena non ci sono dei personaggi classici, ma ci sono delle persone vere. Persone che tu conosci, che hai visto, che abitano nel tuo palazzo o frequentano la tua stessa scuola, e così via. E poi senti l’amica che ti telefona per dirti: “Ma lo sai che mi sta combinando quello?”. Poi, ancora, senti le prime risate rispetto agli errori che l’uno o l’altro dei personaggi fanno. Dopo le risate cominci a capire che il pubblico sta prendendo posizione per l’uno o per l’altra. E questo è il gioco di questo spettacolo. È divertente. E per me è bellissimo». (redazione@corrierecal.it)
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