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inchiesta “medusa”

Barche sovraccariche e acqua e cibo limitati. Così la rete criminale trattava i migranti come «agnellini sacrificabili»

Definiti anche come “merce” e “pecorelle”. Mentre uno dei capi dell’organizzazione si faceva chiamare “padrone”

Pubblicato il: 09/07/2025 – 7:01
di Mariateresa Ripolo
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Barche sovraccariche e acqua e cibo limitati. Così la rete criminale trattava i migranti come «agnellini sacrificabili»

REGGIO CALABRIA Definiti come merce”, “pecorelle” oppure “agnellini” sacrificabili. Così la vita dei migranti era considerata «mercimonio» su cui la consorteria criminale operante sulla rotta del Mediterraneo orientale aveva fondato una vera e propria holding. A capo c’erano cittadini di Georgia, Ucraina, Turchia e Moldavia. Uno di loro era riuscito ad affermare il proprio potere, tanto da essere chiamato dai migranti “padrone”. Sono i dettagli che emergono dalle indagini dell’operazione “Medusa” della Dda di Reggio Calabria ed eseguita dagli uomini della Polizia di Stato del Servizio Centrale Operativo e della Squadra Mobile di Reggio Calabria. Diverse le componenti investigative che hanno cooperato in più Paesi per individuare scafisti e capi delle organizzazioni criminali. Coinvolti la Direzione nazionale antimafia di Eurojust, Interpol, Europol e Servizio per la Cooperazione internazionale di Polizia. «Una indagine complessa», ha sottolineato in conferenza stampa il procuratore Giuseppe Lombardo. Sono 68 in totale gli indagati nell’inchiesta che ha fatto luce sul traffico di migranti che, alla ricerca di un futuro migliore, arrivavano a pagare fino a 12mila euro per affrontare viaggi definiti «inumani», stipati su imbarcazioni «non idonee». Oltre trenta gli sbarchi ricostruiti dall’indagine, avvenuti tra il 2017 e il 2022, che hanno condotto in Calabria circa 2mila migranti (in un quadro che ne ha interessati 10mila) a bordo di barche a vela stipate all’inverosimile, per un giro d’affari nell’ordine dei dieci milioni di euro stimato grazie all’analisi di centinaia di transazioni finanziarie.

LEGGI ANCHE: Viaggi «inumani» da milioni di euro. Il Mediterraneo orientale e gli affari dei trafficanti di migranti

Il sistema di trasporto

Dalla ricostruzione fornita dagli investigatori emerge come nelle disponibilità del sodalizio ci fossero sistemazioni logisticche in diverse safe houses. Gli skipper venivano inviati nelle zone di imbarco, situate principalmente nelle aree costiere turche, vicine alle città di Bodrum, Izmir e Marmaris, dove venivano nel frattempo convogliati i migranti intenzionati a raggiungere le coste italiane. Il trasferimento verso l’Italia avveniva a bordo di barche a vela di circa 12-15 metri, che venivano sovraccaricate di migranti in modo da massimizzare i profitti.

inchiesta medusa

Fatti che evidenziano «la sottoposizione a condizioni disumane e degradanti e l’esposizione a serio e concreto rischio per la propria incolumità». Nella ricostruzione fornita, si fa inoltre riferimento all’assenza di un adeguato quantitativo di cibo e di acqua durante la navigazione, dalla costrizione a restare sottocoperta nel corso della traversata e dalla sottrazione dei loro dispositivi cellulari fino all’arrivo sulla terra ferma. Circa le modalità di pagamento del costo del viaggio (dai 4mila ai 12mila euro) emerge come ci fosse un primo sistema che consisteva nel depositare, in dedicati uffici localizzati nei paesi di origine, delle somme di denaro “a garanzia del viaggio”; altre volte il prezzo veniva invece pagato in contanti direttamente ai trafficanti. E per comprendere la portata dell’organizzazione minuziosa, ad emergere nei dettagli forniti dagli investigatori è quello che viene definito caso “Matti”, dal nome dell’imbarcazione che due scafisti russofoni avevano noleggiato a Messina per intraprendere la rotta che dall’Italia li avrebbe condotti fino alla Turchia, dove l’imbarcazione sarebbe stata messa a disposizione per il viaggio di migranti verso il territorio italiano. Un piano saltato a causa di un’avaria al motore, che aveva fatto fermare l’imbarcazione a largo delle coste di Pellaro, nel Reggino, dove i due uomini sono stati fermati. Non uno sbarco vero e proprio, ma – si legge nella ricostruzione – il «compimento di quelle attività prodromiche a fare entrare i migranti nel territorio nazionale perfettamente pianificate e finanziate nel contesto di un più ampio contesto associativo». 

Le quattro “frange”

La Georgia – secondo quanto emerso dalle indagini – era base operativa della rete criminale, dove gli scafisti venivano addestrati. Oltre a quella georgiana, i componenti della frangia ucraina e moldava avevano il compito di reclutare gli scafisti, mentre quelli della frangia turca, operativa fra la città di Istanbul, dove venivano raccolti i migranti provenienti dall’Asia Occidentale, e i diversi luoghi di imbarco delle coste turche, avevano il compito di organizzare le partenze e gestire i rapporti con i migranti da trasportare e i loro parenti.
Tra i soggetti, facenti capo della rete, emerge la caratura criminale e il potere acquisito da curdo-iracheno, un uomo di potere e con disponibilità economiche importanti, tanto da riuscire a finanziare ed organizzare con estrema facilità le partenze dalla Turchia, anche a distanza di pochi giorni una dall’altra. Dalle dichiarazioni acquisite, l’uomo, sempre accompagnato da una scorta armata, era indicato da alcuni migranti anche con l’appellativo di “padrone
A far parte della rete anche un cittadino georgiano, figura onnipresente nella realizzazione degli sbarchi, che aveva il compito di coordinare tutte le fasi operative, tanto da definirsi “Traffic Manager”. L’uomo aveva fatto assurgere la consorteria criminale a vera e propria holding, fondata sul mercimonio della vita dei migranti definiti come “merce”, “pecorelle” oppure “agnellini” sacrificabili, come avvenuto in occasione dello sbarco avvenuto a Siderno il 6 maggio 2022 in cui persero la vita due persone.

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