Gioffrè-Mirabelli, fine del processo: il racconto dell’ultima udienza
Le 10 ore in aula vissute tra requisitoria, arringa difensiva e lettura del dispositivo. Sguardi persi, silenzi e il verdetto finale

COSENZA Ergastolo! La pm Marialuigia D’Andrea è categorica quando invoca la massima pena rivolgendo lo sguardo alla presidente della Corte d’assise di Cosenza Paola Lucente. A pochi passi dal primo banco dell’aula numero 1, Tiziana Mirabelli è “nascosta” da due agenti della polizia penitenziaria. Solitamente siede accanto al proprio legale di fiducia Cristian Cristiano, ieri ha atteso l’esito del verdetto di primo grado occupando una sedia lontana da occhi indiscreti. È tarda mattina quando si chiude la requisitoria dell’accusa, lo sguardo di Mirabelli è fisso nel vuoto. Dopo oltre due anni dall’omicidio di Rocco Gioffrè, l’anziano di 75 anni ucciso con 41 coltellate il 14 febbraio 2023, il processo giunge al termine dopo una fase dibattimentale segnata da testimonianze, perizie e dichiarazioni spontanee. Un delitto che ha scosso la comunità cosentina, non solo per il violento epilogo ma soprattutto per il coinvolgimento diretto di una donna da sempre impegnata nel sociale. Via Montegrappa, nel quartiere Rivocati a Cosenza, diventa – per qualche giorno – meta di troupe televisive. Tutti con la telecamera accesa per raccontare i contorni di una storia macchiata da disagio e da un rapporto complesso. I due, vittima e carnefice, sono vicini di casa: i loro appartamenti insistono sullo stesso pianerottolo. Piccoli prestiti, sigarette, caffè, avances e scambi di chat roventi. L’anziano pare interessato alla donna, la chiama, le scrive, la cerca, a volte la respinge. Lei risponde, ogni tanto con stizza, poi cerca una riappacificazione e forse si aggrappa ad un uomo maturo per affrontare il quotidiano. La situazione precipita quando Gioffrè trova la morte. Per l’avvocato Cristiano a scatenare l’ira omicida è la reazione ad un tentativo di aggressione. L’avvocato in aula parlerà di un “femminicidio sventato” motivando la richiesta di assoluzione per la sua assistita mossa da legittima difesa. L’accusa, invece, sostiene una tesi agli antipodi: Mirabelli è mossa dal desiderio di impossessarsi del denaro nella disponibilità dell’anziano. Soldi che – sottolinea D’Andrea – la vittima metteva da parte per le cure necessarie al figlio. La requisitoria prima e l’arringa poi, scivolano via sotto gli occhi attenti della presidente della Corte, della giudice a latere e dei giudici popolari. Mirabelli è impassibile.
La pm D’Andrea è bravissima nel porre l’accento, in più riprese, sull’assenza di valide motivazioni a sostegno della tesi di omicidio seguito ad un tentativo di legittima difesa: 41 coltellate sono tante, troppe, non è stata un’azione premeditata ma il risultato di un evento che ha determinato l’azione omicidiaria. E poi una donna, come Mirabelli, impegnata nel sociale non prova rimorso per quanto accaduto?! «In tutto il processo non è mai emerso il senso di colpa dell’imputata, che non ha mai fatto cenno al pentimento», sostiene il pubblico ministero.
La discussione prosegue e arriva al momento clou: come e quando il buio riempie la stanza di un appartamento in via Montegrappa? Quale cortocircuito precede la morte del povero Gioffrè? Una avances, una minaccia, una rivendicazione di possesso? Non lo sappiamo, per la Corte Tiziana Mirabelli è colpevole del delitto, ma non è stata mossa dalla sete di denaro, il movente è da ricercare e collegare a quel rapporto a tratti simbiotico, sicuramente malato tra vittima e carnefice. La difesa, raccoglie le idee e prima della pausa pre arringa affida alla Corte alcune riflessioni in contrasto con la ricostruzione dell’accusa. La mossa è astuta, il legale spezza il racconto appena concluso dall’accusa e suggerisce una versione evidentemente differente. La pausa dura il tempo di un caffè, Cristiano guadagna il banco, ordina gli appunti e inizia a ripercorrere tutti gli eventi chiave pre e post evento delittuoso. Solleva discrasie rispetto all’utilizzo dell’arma del delitto, dubbi sulla scena criminis, ripete lentamente alcuni passaggi significativi degli scambi sulle app di messaggistica privata tra vittima e imputata. La chiosa è anticipata da uno sguardo rivolto a Tiziana Mirabelli, un cenno di intesa con la collega che ha sostenuto insieme a lui la difesa. Negli ultimi minuti di arringa, lo sguardo è fisso ai giudicanti. L’appello finale, quello della richiesta di assoluzione e del percorso alternativo con la prospettiva di un eccesso di legittima difesa, anticipano la fine di un processo chiuso intorno alle 18 di un caldo 16 luglio, quando la presidente Paola Lucente legge il verdetto: Tiziana Mirabelli riceve una condanna a 17 anni. Il silenzio accompagna l’uscita dall’aula delle parti, Mirabelli viene raggiunta per qualche secondo dal proprio legale. Una chiacchiera veloce, forse una parola di conforto, poi l’imputata va via senza concedere neanche uno sguardo agli altri presenti. Dopo dieci ore, la seduta è tolta! (f.benincasa@corrierecal.it)
Il Corriere della Calabria è anche su WhatsApp. Basta cliccare qui per iscriverti al canale ed essere sempre aggiornato