Paesi che si spengono come ceri, ma un’altra Calabria è possibile
Fiscalità di vantaggio e investimenti nell’assistenza ospedaliera pubblica sono le due strade necessarie per evitare l’estinzione delle aree montane e interne della Calabria

«Queste aree non possono porsi alcun obiettivo di inversione di tendenza». È la diagnosi, il vaticinio del Piano strategico nazionale per le Aree interne, approvato nel 2025. Nel documento si legge che un «numero non trascurabile» di territori – già segnati da un declino demografico inarrestabile, da una popolazione «di piccole dimensioni» e «con accentuato squilibrio tra vecchie e nuove generazioni» – va «assistito» lungo un «percorso di cronicizzato declino e invecchiamento». Come dire, non c’è speranza. Nessuna inversione, nessuna rinascita, dunque. L’unica soluzione è un’eutanasia amministrativa lenta, inesorabile, addirittura cinica.
Sembra una sentenza inappellabile, per certi versi una maledizione oppure il rito dell’olio santo prima del trapasso. Insomma, i paesi dell’interno, per esempio quelli che resistono in Sila o in Aspromonte, sono già stati dichiarati persi. Si tratta di territori «compromessi», dice il Piano, con «basse prospettive di sviluppo» e «deboli condizioni di attrattività». Non restano che la pietà e la gestione della fine, amen. Ma le comunità che abitano questi luoghi – e che continuano, ostinate, a mantenerne il nome e l’anima – non chiedono accompagnamento al tramonto. Chiedono giustizia territoriale. E Stato. Altre volte, invece, s’inabissano nella divisione interna, nelle quisquilie, nelle dispute da bar o social, in una sorta di manicheismo di bene e male urlato negli sfogatoi del web, cioè quegli spazi di dialettica virtuale, a parafrasare Woody Allen, «per la quale e con la quale tutto resta tale e quale».
I dati calabresi
I numeri parlano da soli, soprattutto in Calabria. La regione ha perso 180mila abitanti in 20 anni e ne perderà altri 300mila entro il 2050. Intere comunità sono sparite dalle carte. I centri montani hanno perduto tra il 15 e il 30 per cento dei loro residenti. In alcuni casi, come ad Albidona nel Cosentino o Roccaforte del Greco nel Reggino, si è scesi sotto quota 300. Nella comunità montana dell’Alto Ionio, il crollo ha superato il 50 per cento rispetto al 1951. A nulla sono valse le retoriche della riscoperta o della valorizzazione. Aria, fumo. Le strade si chiudono, le case si vendono per poche migliaia di euro, i figli non tornano manco a Natale. Sono i genitori, piuttosto, a prendere il treno per Milano, Verona o Bologna, per restare agganciati a una discendenza trapiantata altrove. Si è rotta la circolarità del ritorno e con essa l’illusione della nostalgia quale forza del radicamento. In questi luoghi dell’interno, raccontati da Saverio Strati come mondi verticali tra la fatica e l’orgoglio, il presente ha perduto densità. I negozietti sono scomparsi. La spesa si fa nei discount lontani; i bambini sono ormai un’eccezione, quasi invisibili; gli asili paiono un ricordo onirico. E ancora: l’economia si regge sulla pensione degli anziani e sulla provvisorietà del lavoro pubblico; il reddito medio non supera i 10mila euro all’anno e in molti casi si ferma a 8mila e spiccioli. Inoltre, i consumi sono scivolati altrove e l’immobilità, scrive l’antropologo Mauro Minervino, è diventata «paesaggio interiore».
Gli ospedali montani calabresi
Nella sanità, poi, la desertificazione diviene più intollerabile. Gli ospedali montani calabresi – Acri, San Giovanni in Fiore, Serra San Bruno e Soveria Mannelli – sopravvivono per definizione, non per funzione. Reparti ridotti, personale medico intermittente, assenza di servizi salvavita. In alcuni casi, non vi è un solo anestesista in pianta stabile. La distanza media per raggiungere un vero Pronto soccorso operativo è superiore ai 60 minuti. Non sempre, tra l’altro, si trova un’ambulanza disponibile. Attenzione, investire in sanità serve alla salute e all’economia. Studi econometrici condotti da università italiane e internazionali, tra cui Harvard, mostrano che ogni euro investito in presìdi sanitari territoriali genera fino a 2,6 euro di Pil aggiuntivo nelle aree marginali. Lo ha spiegato, tra gli altri, Edward Glaeser, tra i maggiori studiosi mondiali della distribuzione urbana della ricchezza: dove si garantisce accesso ai servizi, si stabilizza la popolazione e si attivano catene virtuose nel commercio, nel turismo e nel lavoro. Pertanto, un ospedale di montagna efficiente giova al futuro comune, anche se da Nord a Sud se ne parla il più delle volte come un lusso; di fronte, ripete il mainstream, a razionalizzazioni necessarie.
La politica nazionale mostra di voler seguire altre direzioni
Si preferisce finanziare la spesa militare fino al 5 per cento del Pil, mentre si lasciano morire i Comuni dell’interno. Nel contesto, la sola misura capace di invertire la deriva è una fiscalità di vantaggio strutturale, duratura e concreta. Che si potrebbe sostanziare: nella riduzione del 50 per cento delle imposte dirette per i residenti e le imprese in particolari aree montane; nell’abbattimento del 30 per cento della base imponibile per chi lavora nei luoghi di montagna; nell’introduzione di una tassa locale sui consumi – simile all’Ilcci di Campione d’Italia – in sostituzione dell’Iva, con aliquote agevolate tra il 3 e l’8 per cento. E poi: crediti d’imposta del 45 per cento per chi investe in attività produttive; esenzione totale da successioni e donazioni per immobili e terreni siti nei Comuni interni; contribuzione previdenziale ridotta per tutte le assunzioni stabili nel territorio. Misure del genere sono pienamente compatibili con il diritto europeo, se ricondotte a finalità di riequilibrio territoriale. Lo sostengono economisti come Gianfranco Viesti e anche documenti della Commissione europea che riconoscono alle aree interne un fabbisogno eccezionale. Per realizzarle, occorre una legge dello Stato che definisca un perimetro territoriale chiaro, fondato sui dati demografici e socioeconomici, e istituisca regimi fiscali differenziati e agevolati nel rispetto del principio di eguaglianza sostanziale fissato dall’articolo 3 della Costituzione.
Da queste ragioni consegue un invito esplicito – e urgente – alla politica calabrese, tutta, senza distinzione di appartenenza. È tempo che si apra una discussione pubblica sulla necessità di introdurre in Calabria una fiscalità di vantaggio per le aree montane e interne e sull’opportunità di investire in modo strutturale nel potenziamento dell’assistenza ospedaliera pubblica nei medesimi territori.
Sono queste le due strade principali per restituire un futuro migliore alle comunità che ancora resistono. Non bastano più le parole né le dichiarazioni rituali. Difatti, se si pensa al Piano nazionale di ripresa e resilienza, la Calabria ha sulla carta beneficiato di quasi 9,9 miliardi di euro tra fondo perduto (7,5 miliardi) e prestiti a debito (2,4 miliardi). Eppure, la capacità di spesa è rimasta insufficiente. Secondo i dati più aggiornati, solo il 13 per cento delle risorse è stato effettivamente erogato. La missione Salute, con oltre 500 milioni destinati alla regione, è ferma all’8 per cento. La parte infrastrutturale langue. I Comuni hanno fatto meglio della Regione, ma anche lì si procede a rilento. Solo il 23,5 per cento dei progetti è partito. I fondi ci sono ma restano impantanati. E il rischio è che parte significativa dei fondi a debito – quelli che pesano sul futuro – resti senza contropartita, senza infrastruttura, senza impatto. Diceva Saverio Strati che «ci sono paesi che non muoiono, si spengono come ceri». Vi è ancora tempo per impedire che la fiamma si esaurisca. Alle batracomiomachie, alle ripicche e alla violenza verbale bisogna contrapporre la volontà politica di cambiare, l’onestà intellettuale e lo sguardo di prospettiva. Per evitare che le aree montane calabresi diventino paesaggi abbandonati, bisogna agire adesso: senza scuse, senza rinvii, senza cedere al pensiero negativo di “vegliardi” che non vogliono balzi in avanti e quindi frenano, scoraggiano, smontano. Ci vuole una legge dello Stato che istituisca una fiscalità di vantaggio. Ci vogliono investimenti mirati per rafforzare gli ospedali semichiusi dal Piano di rientro. C’è bisogno di strumenti concreti: norme, fondi e semplificazioni speciali. Il resto sono, purtroppo, atti notarili del declino. Infine, un promemoria: la pubblicazione de “La Lente” di Emiliano Morrone si ferma per qualche settimana e riprenderà dal prossimo venerdì 5 settembre. (redazione@corrierecal.it)
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