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un archivio vivente

Vitigni antichi e rarità, in Calabria una banca vivente in campi di salvataggio

Ruggia e Nereddu, Giacchinè, Tribboti e Paù sono alcuni dei nomi con cui venivano chiamate le uve più antiche coltivate in Calabria

Pubblicato il: 27/07/2025 – 13:44
di Daniela Malatacca
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Vitigni antichi e rarità, in Calabria una banca vivente in campi di salvataggio

COSENZA Ruggia e Nereddu, Giacchinè, Tribboti e Paù. Sembra una di quelle filastrocche pronunciate in un vernacolo sconosciuto, ripetute a memoria da centinaia di anni. E per fortuna qualcuno, da qualche parte, la pronuncia ancora. In realtà sono solo alcuni dei nomi con cui venivano chiamate le uve più antiche coltivate in Calabria, dal Pollino allo Stretto.
Per la prima volta, a raccogliere queste voci e tradurle in studio, conservazione e divulgazione, è l’associazione Calabria Wild Wine. Ne abbiamo parliamo con il suo presidente, Vittorio Porpiglia, che ha fondato l’associazione nel 2021 insieme a Giuseppe Ribuffo, storico ristoratore di Scilla, e Mattias Mercurio, manager Unicef che vive in Irlanda. «Siamo tre amici e rappresentiamo un po’ quella che viene considerata la restanza, come la chiama il caro Vito Teti. Una cosa che tengo sempre a specificare è che tutti i membri dell’associazione non hanno alcun tipo di interesse economico nel mondo del vino, quindi lo facciamo in maniera totalmente disinteressata e per passione».

La biodiversità custodita nei campi di salvataggio

Questa storia nasce dalla curiosità di capire il valore e la varietà dei vitigni calabresi. Approfondendo le fonti storiche, gli studi accademici e i racconti locali, Porpiglia e gli altri fondatori si sono imbattuti in un universo sconfinato. «Sapevamo che tanti studiosi importanti affermavano che la Calabria, insieme alla Sicilia e la Campania, è la culla della biodiversità della vite in Europa e in Italia. Allora abbiamo pensato che forse sarebbe stato interessante saperne di più, ma ci siamo anche detti che studiare questi vitigni non bastava. È così che abbiamo creato due campi di salvataggio individuando due terreni, uno in provincia di Reggio Calabria e uno in provincia di Cosenza». A San Roberto e a San Marco Argentano, le due aree selezionate, sono stati messi a dimora decine di biotipi raccolti da tutta la regione. È un lavoro di ricerca sul campo, nei vigneti abbandonati, negli orti di famiglia, nei terrazzamenti più impervi, tra i boschi. Le varietà recuperate spesso portano solo un nome trasmesso a voce da qualche anziano agricoltore. «Quelle che impiantiamo sono le accessioni di vite – così si chiamano – perché le varietà ancora sono sconosciute. Il nostro primo obiettivo è stato recuperare quante più piante possibili che potevano avere un certo interesse. Provengono da tutte le province e hanno nomi dei più disparati, quelli utilizzati in vernacolo dai vignaioli stessi».

Un esempio: la vera identità dell’uva Paù

Il caso dell’uva detta “Paù” a Bagnara Calabra è emblematico. Conosciuta da secoli, legata a racconti locali, questa vite è stata trasmessa senza mai essere indagata scientificamente. Solo con le analisi è stato possibile risalire alla sua reale identità. «Il vitigno a bacca bianca veniva utilizzato e raccolto nel periodo di agosto. Abbiamo trovato dei riferimenti storici del 1700 che parlano di una vite che si dice prenda il nome da un prelato di Nicotera che si chiamava proprio Paù. Noi abbiamo scoperto che questa vite è ancora diffusa a Nicotera e a Bagnara, ma nessuno ha mai cercato di capirne meglio. Paù è il nome che hanno utilizzato sempre gli anziani, ma nessuno sa che cos’è questa vite». Il sequenziamento ha rivelato che si tratta dell’uva Regina, un’uva da tavola molto antica, diffusa un po’ in tutto il mondo. Ma ogni nome locale porta con sé una storia. E spesso il patrimonio è più ricco di quanto si pensi. «Sveliamo l’identità di questi vitigni che spesso hanno dei sinonimi, possono essere degli omonimi. Sinonimi significa che sono vitigni differenti che però hanno lo stesso nome, però hanno un’identità genetica differente».

La scoperta della Vitis Sylvestris e la svolta con UniMed

Ma un nome, che arriva dalla cultura orale, non basta. Per dare un nome certo a queste piante è necessario il sequenziamento del DNA. È in questa direzione che è stata avviata una collaborazione con il Dipartimento di Agraria dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria, guidato dal professor Francesco Sunseri. Tutto è nato dal ritrovamento, da parte dell’associazione, di esemplari rari e preziosi di vite selvatica (Vitis Sylvestris) in Aspromonte. I campioni sono stati consegnati all’università per l’analisi genetica. Da lì è nato il rapporto con il mondo accademico e scientifico che ha coinvolto anche l’intero progetto di salvataggio dei vitigni antichi. «Il passo successivo, che è quello che finalmente siamo quasi arrivati a realizzare, è l’analisi del DNA di queste piante per conoscerne realmente la loro identità».

E se il vitigno più antico fosse lungo il fiume Lao?

Proprio la presenza di viti selvatiche in Calabria ha trovato una delle sue più straordinarie conferme nella Grotta del Romito. Situata nel comune di Papasidero, in provincia di Cosenza, ai piedi del massiccio del Pollino, la grotta è uno dei siti preistorici più importanti del Sud Italia. “Qui, negli strati del periodo epigravettiano – cioè tra 19.000 e 10.000 anni fa, alla fine del Paleolitico superiore – sono stati ritrovati 12 vinaccioli di vite selvatica risalenti a oltre 11.000 anni fa. Si tratta quindi delle più antiche tracce di uva in Italia, e forse nel Mediterraneo. È un dato noto solo a un gruppo di studiosi, ma sarebbe interessante poterne cogliere la portata se si decidesse di restituirne pubblicamente il contenuto. La Calabria, se tutto fosse confermato, sarebbe al centro di una delle prime interazioni tra uomo e vite nell’Occidente. Questo significherebbe che già nel Paleolitico superiore, le comunità raccoglievano grappoli di vite spontanea cresciuta lungo i corsi d’acqua della Valle del Lao.
Questi vinaccioli, prelevati dall’Università di Firenze, aprono una nuova prospettiva sulla domesticazione. Raccontano un rapporto che precede Greci, Enotri e Romani, e pongono la Calabria come possibile snodo nella transizione da vite selvatica a vite coltivata. «Le ricerche condotte da un team di archeobotanici – spiega ancora Porpiglia – risalgono al 2004 e fanno riferimento a dei vinaccioli risalenti a 11.000-11.500 anni fa trovati all’interno della Grotta del Romito. Una scoperta straordinaria. Bisogna però specificare che questo non significa che abbiamo iniziato a vinificare 11.500 anni fa, ma che sicuramente la presenza della vite c’era. È la testimonianza più antica che abbiamo in Italia che ci dimostra la presenza dell’uva in quella zona e il suo utilizzo nella dieta di chi abitava all’interno della grotta. I vinaccioli non si trovavano lì per caso».

L’attenzione scientifica internazionale su Calabria Wild Wine

Nel frattempo, il progetto dell’associazione ha attirato l’interesse della ricerca internazionale. Nel maggio scorso una delegazione di genetisti guidata dal prof. Wei Chen (Yunnan Agricultural University), affiancato dai ricercatori Francesco Sunseri (Università Mediterranea di Reggio Calabria) e Francesco Mercati (CNR IBBR Palermo), ha visitato il campo di salvataggio di San Marco Argentano. Wei Chen è autore dello studio pubblicato nel 2023 sulla rivista “Science” riguardante l’origine e l’identità delle viti antiche e la loro domesticazione. A colpire gli studiosi è stato il metodo del progetto di Calabria Wild Wine in cui, al recupero delle piante, si affianca una narrazione culturale, storica, antropologica. Il campo di salvataggio nella Valle dell’Esaro, tra l’altro, è davvero suggestivo, poiché ospita una galleria d’arte all’aperto, creata dall’artista Domenico Grosso che ha concesso l’uso del terreno e inserito le sue opere tra i filari: «Sì, abbiamo inserito anche l’arte nel racconto del vino. Dico sempre che la nostra idea è quella di raccontare il vino da più prospettive: la prospettiva storica, quella della scienza, la prospettiva antropologica, e anche quella artistica».

Mantonico, il vitigno totemico dei calabresi

Abbiamo chiesto a Vittorio Porpiglia se, tra tutte le varietà di vitigni che ha conosciuto e che Calabria Wild Wine tutela, ce n’è una a cui è particolarmente affezionato: «Il Mantonico bianco. In assoluto. Ne coltiviamo 70 piante in mezzo ai nostri vitigni. Lo vogliamo vinificare, osservare, lo vogliamo tenere con noi come se fosse, ecco, una sorta di vitigno totemico, credo di tutti i calabresi. Cresce su una terra benedetta ed è sicuramente uno dei vitigni più antichi che esistono in Italia. E poi è uno dei capostipiti della maggioranza dei vitigni del sud Italia, fatto dimostrato dal professor Claudio D’Onofrio dell’Università di Pisa con una ricerca bellissima del 2021. È stato documentato che il Mantonico, insieme al Sangiovese, sono i genitori della maggioranza dei vitigni del sud Italia. Poi ha un carattere assai versatile per cui da un Mantonico puoi fare un orange, un passito, uno spumante, un secco, puoi fare tutto e tutto viene buonissimo. È veramente pazzesco». Ci si chiede come sia possibile che questo vitigno abbia resistito così a lungo. «Veniva utilizzato per fare dei passiti, perché a questo si prestava benissimo. È riuscito a sopravvivere grazie al fatto che da noi la tradizione dei vini passiti non è mai morta. Qui ancora si fa come insegnava Esiodo (“Le opere e i giorni” ndr) quando spiegava come si devono appassire le uve prima di vinificarle, e a Bianco lo fanno ancora in quel modo».

Il futuro di un archivio vivente

Guardando avanti, Calabria Wild Wine punta a diventare un centro per lo studio, la divulgazione e la tutela della viticoltura calabrese. «La nostra idea – conclude Porpiglia – è che possa diventare un punto di riferimento autorevole per tutto ciò che riguarda il racconto, la narrazione e le informazioni che riguardano i vitigni calabresi, i nostri vini, gli aspetti storici legati alla viticoltura del nostro territorio e che sia una sorta di archivio fisico, con i nostri vitigni da osservare da vicino, e anche virtuale, in cui trovare il patrimonio che appartiene a tutti noi». (redazione@corrierecal.it)

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