La Calabria è l’aula magna delle occasioni mancate
Tra le “ciangiuline pizzitane” e le “prefiche bagnarote” è stata sempre una bella lotta per chi sapeva sprigionare meglio le fatture scaramantiche e rendere più tragico l’ambiente funebre. Altro che…

Tra le “ciangiuline pizzitane” e le “prefiche bagnarote” è stata sempre una bella lotta per chi sapeva sprigionare meglio le fatture scaramantiche e rendere più tragico l’ambiente funebre. Altro che “aglio, fravaglio, fattura ca nun quaglio, corna, bicorna, capa r’alice e capa r’aglio”, slang partenopeo di sapore gastronomico. D’altra parte, anche il musicista Francesco Cilea, palmese doc, nella sua “Arlesiana” racconta il ritorno di Metifio che riaccende la sua passione e lo porta al suicidio.
Il tema è il lamento in tutte le sue sfaccettature.
Soveria Mannelli, comunità montana abituata alle sorprese, pensate a suo tempo dal sindaco Mario Caligiuri, non poteva che ospitare, dal primo al quattro agosto, il “Festival del Lamento”, in diebus lamentationis, ossia – come recita la presentazione ufficiale – «suoni e parole che attraversano il tempo, dal Medioevo ai giorni nostri: il lamento tra resa e speranza».
Ce n’è per tutti i gusti, le fasce d’età, le inclinazioni.
Si inizia con i “Spa-tur-nà-ti” che, tra le tante possibili etimologie di questa parola, potrebbe essercene un’altra: nati senza padrone.
E giù alla fantasia.
Franco Arminio, scrittore e paesologo, così ha chiuso una sua recensione al Festival del Lamento su Robinson: «Il Festival del Lamento è una buona occasione per capire che portare il broncio ai propri luoghi è un errore grave quanto quello di considerarli un paradiso: se così fosse sarebbe davvero inspiegabile perché è proprio dai cosiddetti paradisi che si emigra di più. Bisogna vivere o tornare a vivere in Calabria intrecciando entusiasmo e spirito critico, scrupolo e utopia. Da qui poi si può ingaggiare una lotta perché ci siano politiche adeguate a chi vuole rimanere o tornare. E forse un giorno quelle che furono le terre del lamento diventeranno terre di tanti, luoghi lieti e pensosi, in cui la luce e il buio sono facce della stessa giornata».
Per non dire: “Trivulu, malanova e scuntintizza”.
