“Restanza”, la sfida alla desertificazione sociale
Migrare, restare, tornare: i diritti complementari dell’abitare

L’affermazione del PNNR del governo che lo spopolamento è un fenomeno inarrestabile e che bisogna accompagnare con cura alcuni paesi a una loro serena scomparsa, ha generato reazioni indignate e riflessioni argomentate in intellettuali, studiosi, centinaia di gruppi di base, associazioni e movimenti che lottano e operano contro lo spopolamento. Chi segue questo giornale visto come siamo stati protagonisti di posizioni antagoniste e che affermano, comunque, il “diritto a restare” assieme al “diritto a migrare”. In questo contesto, forse alcune considerazioni svolte begli ultimi mesi sul motivo della “restanza”, possono aiutare ad uscire da posizioni retoriche e ideologiche, da analisi che non hanno alcun riscontro nella realtà e che non tengono conto dei desideri e dei bisogni delle persone, sia che vogliano partire sia che vogliano restare. Come restare è il diritto che rivendicano intere popolazioni e questo diritto, complementare a quello del migrare, si oppone all’ordine dei potenti del mondo, alle loro scelte politiche, economiche, così la restanza ha ormai una certa diffusione in ambienti culturali democratici e radicali e ha finito con l’assumere il significato di resistenza, opposizione al modello dominante, all’omologazione, alla globalizzazione.
L’eco-memoria
Negli ultimi anni la restanza, così come la nostalgia di chi resta, si afferma come maggiore insistenza nella sua accezione politica, che invita a riflettere, a costruire nuova coscienza al cospetto di tutti i grandi temi che le dinamiche del tempo dell’Antropocene ci pongono di fronte. Un esempio importante è la testimonianza dello scrittore siculo-americano Michele Eggy Segretario che mette a confronto i paesaggi acustici della diaspora e le ideologie politiche che hanno contribuito a definirli. In Remaining in tune: arrivals, departures, and acoustic networks in depopulated Sicily, basa la sua ricerca sulle reti acustiche che, negli ultimi anni, sono state stabilite tra le aree spopolate del Meridione e gli Stati Uniti. In un periodo contrassegnato dalle migrazioni, la necessità, il desiderio e la volontà di generare un nuovo senso di appartenenza non sono solo fondamentali per chi parte, ma anche essenziali per coloro che scelgono di rimanere, cercando di ridefinire la loro identità e connessione alle radici scomparse. Le reti acustiche generate da questi due gruppi rappresentano un paesaggio sonoro condiviso che colma il divario tra partenza e permanenza e che, secondo Segretario, non riflette solo emozioni, ricordi e aspirazioni condivise, ma permette anche a chi è partito di mantenere legami con le proprie origini, offrendo a chi è rimasto una strategia rigenerativa per ripensare sia il luogo in cui vivono sia la loro stessa identità. Esiste una sorta di eco-memoria, che racconta come i suoni, le voci, i rumori ambientali facciano parte del vissuto di chi resta e di chi parte. Già gli autori romantici, filosofi, poeti, pittori, musicisti avevano colto che la nostalgia non era tanto legata alla perdita del luogo di origine, ma al passare del tempo passato, che non è mai possibile riguadagnare. La musica, i suoni, il cibo, gli odori, il paesaggio hanno una funzione mnemonica che a volte porta a un nuovo appaesamento, a volte a una dispersione radicale dell’individuo.
Pietre di pane, Stones into Bread
La traduzione inglese dell’edizione canadese (Guernica) di Pietre di pane, Stones into Bread (Teti 2018b) ha contribuito alla diffusione del termine italiano restanza nei Paesi anglosassoni, nella sua accezione più politica. Nel caso di Blaenau Ffestiniog, una cittadina del Galles ubicata nella contea nordoccidentale di Gwynedd – in passato importante centro dell’estrazione dell’ardesia, interessata da varie fasi di urbanizzazione, investita poi da un inarrestabile declino economico che ne ha causato il progressivo spopolamento – alcuni studiosi del Regno Unito (Cunnington Wynn, Froud e Karel 2022) vi hanno colto uno spunto per una rivalutazione dei valori collettivi di attaccamento a un luogo, un’occasione per rovesciare il punto di vista delle generalmente fallimentari politiche di ‘sviluppo’ delle zone marginali, nonché una possibilità per assegnare invece loro un valore specifico, propositivo, di conservazione attiva dei luoghi. Da un punto di vista socioeconomico, gli autori argomentano come la restanza possa costituire una base concettuale per ripensare in modo costruttivo forme virtuose di riuso adattivo del territorio.
Tre distinte declinazioni del concetto di restanza
Una tesi discussa presso la Facoltà di Scienze Politiche e Sociali dell’Università di Ghent (Belgio) ha preso in considerazione similitudini e differenze di tre distinte declinazioni del concetto di restanza, intesa come risposta alternativa all’abbandono causato dalle scarse opportunità di lavoro in aree del Meridione, con una significativa economia agricola che vede un largo impiego di manodopera migrante sostanzialmente in condizioni di moderna schiavitù. I casi analizzati, secondo l’autore, sono accomunati dalla concezione di una diversa relazione con il territorio, da ripensare in senso collettivo e sostenibile, nonché dalla rivendicazione di condizioni di lavoro eque e sostenibili. I movimenti locali che si ispirano al concetto di restanza devono necessariamente affrontare la sfida della solidarietà con i lavoratori migranti, mettendo in discussione la narrazione e le politiche attuali. Michele Eggy Segretario mi scrive che nei suoi corsi sono ormai numerosi gli studenti provenienti da Cina, India e altri paesi orientali che adottano il termine restanza anche con riferimento alla loro esperienza, al loro vissuto, al loro confuso desiderio di vivere in un nuovo luogo e di tornare nella terra di origine, con la quale non tagliano mai il legame.
Spingere il cuore oltre l’ostacolo e avere coraggio
È un fenomeno in crescita la nascita di gruppi, associazioni, festival che non fanno riferimento a retoriche e slogan di un “restare” apatico e passivo, ma si richiamano a una restanza intesa come pratica per migliorare e cambiare i luoghi, affermare una tendenza a stabilire relazioni, scambi e aperture con altre esperienze e con il mondo esterno. Per quanto molti giovani e molte associazioni o gruppi, che considerano – con buone argomentazioni – la restanza (o la scelta di tornare) una sorta di spinta e di movimento fondamentali per la possibile ripresa di una nuova ‘questione meridionale’, vivano e operino ai margini, in piccoli centri, va sottolineato come questo termine stia ormai assumendo un respiro globale e riguarda tutti coloro che nei paesi, nelle città, nelle periferie del mondo sono alla ricerca attiva e dinamica di un nuovo senso dell’abitare e di proteggere i luoghi, di prendersi cura e avere riguardo del posto in cui, per nascita, per scelta, per necessità, si trovano a vivere. Per molti bisogna spingere il cuore oltre l’ostacolo e avere il coraggio, la fantasia, l’energia di «politicizzare la restanza», di diventare soggetti attivi soprattutto nelle aree rarefatte, spesso de-antropizzate, con una struttura demografica squilibrata verso gli anziani, «con forti deficit istituzionali e di beni pubblici locali, con carenze gravi di imprese e di lavoratori qualificati, con debolezze infrastrutturali diffuse, prodotte da anni di disinteresse nazionale o di tagli alla spesa pubblica, con potere contrattuale politico e istituzionale residuale». Così scrivono Cersosimo, De Rose, Licursi (Lento pede, 2023), che precisano: «Politicizzare la restanza, vuol dire innanzitutto riconoscere i cittadini che hanno scelto di restare, i loro bisogni, i loro desideri, la loro voglia di continuare a vivere in luoghi appartati, diversamente appaganti, di praticare forme di vita più “naturali” e meno esposte ai rischi del nostro tempo ipertecnologico e ipernormativo».
La restanza politicizzata
Politicizzare la restanza vuol dire innanzitutto riconoscere i cittadini che hanno scelto di restare, i loro bisogni, i loro desideri, la loro voglia di continuare a vivere in luoghi appartati, diversamente appaganti, di praticare forme di vita più “naturali” e meno esposte ai rischi del nostro tempo ipertecnologico e ipernormativo (Cersosimo – Licursi 2023, p. 136). Una scelta coraggiosa e dolorosa quella di assumere una prospettiva emica, cercare di comprendere dall’interno e non come un turista di passaggio, entrare in contatto con le persone e affermare il loro diritto a restare. Forse questa politicizzazione della restanza (da non enfatizzare e tutta da inventare) potrebbe creare le condizioni perché i restanti si possano spostare, partire, accogliere gli altri. Si sta affermando anche una politicizzazione dei ritorni, di chi ritorna per scelta e volontà di contrastare l’abbandono e lo sfacelo della regione. Durante il lockdown e dopo, molti giovani hanno fatto la scelta di tornare dai luoghi in cui vivevano e lavoravano nella terra di origine. In molti manifestavano e maturavano l’intenzione di non partire, di “restare” con l’ambizione di rigenerare e ripopolare luoghi quasi abbandonati o spopolati, che, però, non considerano più marginali e periferici, e dove invece scorgono risorse e potenzialità produttive, turistiche, culturali. Così si afferma un nuovo modo di guardare dai margini e dalle periferie, un’insoddisfazione per la vita in città (spesso faticosa e insostenibile economicamente), il desiderio di ricongiungersi con i propri familiari, la voglia di mettersi in gioco e di creare nuove economie e nuove culture, di avviare iniziative agricole, artigianali, ma anche nuovi mestieri e nuove professioni, nei luoghi d’origine, dove ancora hanno una casa, dei familiari, dei terreni che vogliono mettere a coltura. Il sorgere di nuove comunità di restanti è un modo di resistere al processo di desertificazione ambientale, ma anche socio-culturale, che rischia di essere una sentenza di morte per molte aree del Meridione.
Una nuova questione meridionale
Una restanza non del singolo, ma di gruppi, che afferma e rivendica diritti: alla salute, alla scuola, alla cultura, alla viabilità, a centri sociali e culturali. Una politica della restanza diventerebbe un nuovo modo di guardare il Sud, di affermare, appunto, una nuova questione meridionale, di stabilire legami, convergenze, iniziative tra aree fragili e sofferenti del Sud e di un Nord lontano da tentazioni autonomiste o separatiste, tra paesi e città, campagne e aree metropolitane. Dopo il Covid-19, sempre più siamo consapevoli che migrare e restare sono le scelte complementari di un mondo dove tutto è cambiato e muta quotidianamente: sono diritti complementari, non alternativi e in contraddizione. Che senso dare al viaggiare, al restare, al tornare nel momento in cui le scelte vengono determinate da un piccolo virus, dalla crisi climatica, dalle guerre, dalla ricerca di acqua o di cibo? Restare, partire, tornare – strettamente legati – assumono oggi un nuovo senso perché la domanda relativa al mio abitare o spostarmi inquieto non è più “che ci faccio qui?”, ma, come ci ricorda Bruno Latour (2022), «dove sono?». Confinati, stralunati, pieni di sgomento, ci domandiamo, sia nel chiuso di una casa sia in una città termitaio, come il Gregor Samsa della Metamorfosi di Kafka: «Ma dove sono?», si domanda Samsa divenuto un «mostruoso insetto». E Latour commenta, nel tentativo di raccapezzarsi partendo dall’imprevedibile divenire insetto, da «un’altra parte, in un altro tempo, qualcun altro, membro di un’altra popolazione». Dove sono, mentre tutto il mondo è sospeso, fragile, incerto, senza direzione e senza telos?
Il restare riguarda, in maniera diversa, quanti resistono allo spopolamento e allo svuotamento dei paesi, le persone che nelle città, vengono espulse dalle loro abitazioni e confinate in quartieri ghetti, le popolazioni che difendono il loro territorio da invasori e portatori di guerre, le popolazioni che si oppongono alle devastazioni delle loro terre, dei boschi, delle foreste. Restare e migrare sono due “politiche”, diverse e complementari, di chi non accetta questo nuovo ordine del mondo, l’affermarsi di un modello neoliberista, che provoca distruzione nei luoghi di partenza e nei luoghi di arrivo. (redazione@corrierecal.it)
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