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L’INTERVISTA

Silvia Calipari, figlia di Nicola: «Fu lasciato solo e tradito»

La figlia del militare reggino, ucciso nel 2005 in Iran da un soldato statunitense, afferma: «Lo Stato? Difficile fare di meno»

Pubblicato il: 12/08/2025 – 9:44
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Silvia Calipari, figlia di Nicola: «Fu lasciato solo e tradito»

ROMA Oltre venti anni fa, il 4 marzo 2005, Nicola Calipari, poliziotto, militare e agente segreto nato a Reggio Calabria, veniva ucciso da soldati statunitensi nell’ambito della guerra in Iraq, mentre si recava all’aeroporto di Baghdad, subito dopo la liberazione della giornalista del Manifesto, Giuliana Sgrena. La figlia Silvia, intervistata dal Corriere della Sera, ha raccontato la figura del padre, ricordando quei momenti tragici e rivolgendo diverse accuse, con un mix di rabbia e desolazione.

Chi era Nicola Calipari ?

Della storia di Nicola Calipari si è detto e scritto tantissimo, addirittura Netflix ci ha fatto un film, Il Nibbio. Ma chi era Nicola Calipari? Chi se non sua figlia può rispondere a questa domanda: «Era un uomo perbene, che ha servito con dignità e onore lo Stato. Il mio eroe sicuramente, a livello personale. Pubblicamente no, perché per me gli eroi sono anche persone che vogliono apparire e invece lui aveva grandi valori, un forte senso dello Stato e un immenso rispetto della vita». Eroe lo era stato anche per la giornalista Sgrena: «Ha fatto quello che era nella sua natura. Aveva promesso e si era promesso che l’avrebbe riportata a casa. Ha onorato l’impegno».

Il giorno della morte

All’improvviso, quel 4 marzo 2005, la notizia della morte del padre arriva a Silvia, all’epoca 19enne : «Ho sentito in tv la notizia che Giuliana Sgrena era stata liberata e ho pensato: ecco finalmente papà torna a casa. E invece soltanto dopo ho saputo da mia madre che quella doveva essere la sua ultima missione, che aveva già deciso di rientrare in polizia. Io comunque avevo intuito il suo malessere: non era più sereno – spiega -, era sempre preoccupato. Non lo vedevo più, o era all’estero o rientrava in tarda serata. Non gliel’ho mai detto, però io speravo che finisse prima possibile. A me interessava che ricominciasse a fare un lavoro che gli facesse tornare il sorriso». Su cosa esattamente lo angosciasse, nemmeno la figlia sa rispondere: «Con noi non parlava mai del suo lavoro, nemmeno quando faceva il poliziotto. Il fatto che avesse partecipato alla liberazione di Soffiantini l’ho scoperto leggendo il giornale. E dopo, quando è entrato nei servizi segreti, ancora di più. Ricordo che quando furono liberate le due Simone uscì un articolo dove si faceva il suo nome e si diceva che era il negoziatore. Non ne abbiamo mai parlato ma ho capito subito che in quell’occasione lo avevano messo in grande difficoltà. Era un tacito accordo tra noi – evidenzia -, e questo ha fatto scattare in me una riservatezza totale. Ora faccio fatica anche a dire dove abito. Io non ho mai fatto domande, sapevo che del lavoro di papà non si doveva parlare».

Il rapporto padre-figlia

Il focus si sposta sul rapporto con papà Nicola: «Era spesso lontano, ma sempre molto presente. Riusciva ad esserci sia nei momenti importanti, sia nelle cose normali. Quando ero piccola era lui ad addormentarmi, trovava sempre il tempo per noi. Quando sono cresciuta non ricordo una volta in cui l’ho cercato e non mi ha risposto al telefono. Era un papà esigente – aggiunge – diceva quello che andava fatto, ma spiegandoti i motivi. Anche quando non voleva che facessi una cosa, mi spiegava le sue ragioni. È sempre stato un padre accogliente».

La missione in Iraq

Silvia Calipari ricorda anche il momento in cui arrivò la chiamata per l’Iraq: «Stavamo partendo tutti insieme — lui, mia mamma, io e mio fratello, dice Silvia — per la settimana bianca. È arrivata una telefonata e siamo tornati indietro. Io però credevo che dovesse coordinare il lavoro degli altri, non sapevo fosse operativo. Sapevo del rapimento si Sgrena – rivela – e ho fatto due calcoli. Ho capito dove andava. Quel giorno era preoccupato, è stato sempre al telefono, avrà fumato un pacchetto di sigarette». La notizia della missione in Iraq, tuttavia, non preoccupò la giovane Silvia: «Non abbiamo mai avuto bisogno di parlarci. Tra noi c’erano gli sguardi e questo bastava. Anche se doveva sgridarmi o farmi un complimento. Era una cosa tra me e lui. I suoi occhi parlavano, spiegavano. E ci capivamo. Ero in quella fase della vita in cui pensi che tutto vada bene, quindi non avevo paura, capivo che stava facendo una cosa importante. Sinceramente ero tranquilla, ripeto non l’ho mai creduto in situazioni di pericolo».

La tragica notizia

Purtroppo, arriva quel tragico 4 marzo 2005: «Avevo la tv accesa, stavo studiando per un compito in classe e ho sentito la notizia che Giuliana Sgrena era stata liberata. Ho chiamato subito mia mamma. Eravamo felici. Poi ho provato a chiamare lui, non mi ha risposto. All’improvviso è cambiato tutto». In poco tempo, la notizia si diffuse: «La nostra casa si è riempita di gente. Inizialmente ho sperato con tutto il cuore che fosse ferito. Nell’ingenuità dei 19 anni non pensi alle cose peggiori. Solo dopo che i telegiornali diedero la notizia, il capo del Sismi ci comunicò che era stato ucciso dagli alleati americani, nessuno ci avvertì prima».

Il periodo successivo

La tragedia scosse parecchio la famiglia Calipari. Silvia racconta dunque il periodo successivo alla morte del padre e i tanti sentimenti vissuti: «Al nostro fianco ci furono gli amici di sempre, i comuni che hanno intitolato strade, piazze e scuole, la comunità scout e i tanti cittadini che ci hanno dimostrato solidarietà, affetto e stima negli anni e anche in occasione dell’uscita del film». Dopo la disperazione, subentrò la rabbia: «Tanta rabbia, anche perché siamo stati catapultati in una realtà che non era nostra, in un mondo che non conoscevamo. Io per carattere non amo apparire, in quei momenti è stato terribile. Eravamo al centro dell’attenzione, avevamo i giornalisti sotto casa, inseguiti ovunque. È stato pesantissimo anche perché io volevo soltanto stare da sola. Non volevo contatti con il mondo e invece ero nel caos. Persino il funerale l’avrei voluto solo per noi. Ci sono voluti tanti anni per riuscire ad attenuarla, ma so che non mi passerà mai».

Il senso del dovere, le controversie e il ruolo dello Stato

La storia di Nicola Calipari è contornata da diverse incertezze e controversie. L’ultima parte dell’intervista della figlia Silvia è dedicata proprio a questo aspetto: «Se non fosse andato in Iraq, se non avesse fatto tutto il possibile per liberare Giuliana Sgrena, come aveva già fatto per altri ostaggi, sarebbe andato contro il suo forte senso del dovere e di responsabilità verso lo Stato. La mia rabbia non era rivolta contro di lui, ma verso quella guerra sbagliata. Per questo motivo avevo partecipato alle manifestazioni pacifiste, anche se lui mi aveva detto di non andare. Come lui sono stata scout, questi sono i nostri valori». A sparare fu il soldato Mario Lozano, che parlò di tragica casualità. Ipotesi che tuttavia non convince la figlia Silvia: «Non credo che la casualità appartenga a quel mondo, gli Stati Uniti non hanno mai concesso l’estradizione e il processo non è stato celebrato: non abbiamo ottenuto giustizia né temo che sarà possibile conoscere i reali responsabili della morte di mio padre». E ancora: «Mio padre è stato lasciato solo – accusa -, la sua grande generosità, anche nel lavoro lo ha penalizzato in quell’ambiente. Era troppo per bene per quel mondo, che alla fine lo ha tradito. L’Italia poteva fare di più per dargli giustizia – conclude -, anche perché di meno sarebbe stato difficile».

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