Omicidio Bellocco, a un anno dall’assassinio la famiglia grida giustizia. «Per Beretta un eccesso di indulgenza»
L’ex pm antimafia e legale della famiglia Antonio Ingroia al Corriere della Calabria: «Giudici troppo clementi, la vedova e i figli non si sentono ripagati»

LAMEZIA TERME Una prima verità processuale che non ha chiuso un capitolo drammatico e doloroso. Perché ad un anno esatto di distanza la famiglia Bellocco chiede ancora verità, ma soprattutto giustizia.
Era il 4 settembre 2024 quando la notizia dell’omicidio di Antonio Bellocco (cl. ’88) ha stravolto le cronache ma soprattutto gli equilibri – già molto delicati – all’interno delle curva Nord di San Siro, quella dell’Inter.

L’omicidio e l’inchiesta sugli ultrà
Quello di Totò Bellocco è, infatti, un omicidio brutale. Ad ucciderlo è stato l’amico ed ex capo ultrà dell’Inter Andrea Beretta, con una coltellata nel corso di una colluttazione all’interno di un’auto di fronte ad una palestra a Cernusco sul Naviglio, luogo di ritrovo abituale degli ultrà nerazzurri. Il resto è storia, quella scritta per settimane. A cominciare dal blitz di fine settembre scorso ribattezzato “Doppia Curva” che ha assestato un durissimo colpo al tifo organizzato dell’Inter ma anche quello del Milan. E poi il capitolo cruciale: la scelta di Andrea Beretta di collaborare con la giustizia. Una decisione che, unito al rito abbreviato, gli ha permesso di ottenere una condanna a 10 anni di carcere. L’omicidio di Totò Bellocco, però, si è presto legato a doppio filo con l’indagine che intanto la Dda di Milano stava conducendo sulle curve del Meazza. Scoperchiando un vaso di Pandora fatto di affari molto poco trasparenti, giochi di potere e intimidazioni. Fino all’intromissione della ‘ndrangheta calabrese.

La “verità” di Beretta
L’ex capo ultrà dell’Inter – nelle centinaia di pagine di verbali riempiti dopo la scelta di collaborare – aveva rivelato di «essere stato a conoscenza di un “piano omicidiario” nei suoi confronti» e che «sarebbe dovuto passare a vie di fatto dopo che lo stesso era stato convocato, tra giugno e luglio, a casa del defunto Bellocco dove, all’interno dei box sottostanti l’abitazione, aveva incontrato due emissari della sua famiglia, di cui uno presentato come un latitante, che gli avevano rivolto direttamente concrete intimidazioni», sempre correlabili alla gestione del merchandising. È per queste ragioni, dunque, che Beretta si era munito di una pistola che portava sempre con sé.
Occhi puntati – solo per citare uno tra gli episodi più eclatanti – sull’incontro tra Antonio Bellocco, Andrea Beretta, Marco Ferdico, Gianfranco Ferdico e Matteo Norrito, legato alla gestione dell’attività commerciale avviata per il merchandising dell’Inter attraverso la “We Are Milano”. Ai pm, infatti, il pentito aveva spiegato di esserci dato perché «non ho niente da nascondere, sono sempre andato agli incontri, anche con i familiari (…) all’inizio non avevo niente da nascondere perché per me era limpido il mio operare». Attorno a lui si sarebbe poi creato un «clima di sfiducia» perché erano proprio i suoi amici più stretti a non fidarsi di lui. L’ex capo ultrà dell’Inter, però, non sa spiegare il perché. «Non so, ma questa qui è gente che non ha mai lavorato, non ha capito bene cosa vuol dire lavorare…».

«Eccesso di indulgenza»
Ricostruzioni, quelle di Beretta, che hanno convinto i giudici del Tribunale di Milano che lo hanno condannato a dieci anni, escludendo tutte le eventuali aggravanti. Una condanna, però, che ha lasciato l’amaro in bocca alla famiglia di Totò Bellocco. Una sentenza che «non ha soddisfatto i familiari, certo, soprattutto la giovane vedova e i figli ma non ha neanche soddisfatto il senso di giustizia» spiega al Corriere della Calabria l’ex pm e avvocato della famiglia Bellocco, Antonio Ingroia.
«Ho fatto il pubblico ministero antimafia per circa 25 anni e conosco bene le tematiche e le problematiche legate all’incentivazione della collaborazione con la con la giustizia, anche dei criminali peggiori, però mi pare che in questo caso ci sia stato davvero un eccesso di indulgenza da parte della magistratura milanese», precisa Ingroia. Un eccesso che, secondo il legale «è connessa, forse, ad una incompleta cultura delle dinamiche di mafia e antimafia che non ha considerato adeguatamente i contraccolpi negativi». Come ci ha raccontato Ingroia, infatti, parliamo di un caso molto delicato per via di un nome, quello dei Bellocco, con una tradizione pesante. Una famiglia che per la prima volta «decide di affidarsi alla magistratura, non chiedono vendetta ma giustizia, già questo è un aspetto simbolico diventato ancora più significativo con la scelta di affidarsi a me come loro avvocato proprio per il mio passato da pm antimafia». «La giustizia non li ha ripagati adeguatamente e, ripeto, con una condanna troppo lieve», spiega ancora Ingroia, «escludendo ogni possibile aggravante che, invece, ci stava e, quindi, secondo me, non è stato un bilancio positivo per la giustizia».

«Profonda amarezza e dolore aggravato dalla giustizia»
Dall’ex pm antimafia, poi, un parallelismo tra il pentimento dell’ex capo ultrà dell’Inter, Beretta, e il caso Spatuzza, autoaccusatosi della strage di Via d’Amelio anche quando nessuno ancora lo aveva fatto. «Il caso di Beretta è ben diverso, c’era la prova spaccata nella sua responsabilità, quindi è stato tutto sommato assai più facile confessare un delitto sulla quale c’era già la sua responsabilità. Quindi, la ritengo, in questo caso, ingiustificabile la fortissima diminuzione di pena e il trattamento fin troppo clemente nei suoi riguardi». Dai Bellocco, infine, un messaggio di «profonda amarezza, quello di una famiglia che aveva in Bellocco un marito affettuoso e un padre altrettanto affettuoso e vicino ai propri figli. Si confidava molto da parte di questa famiglia nella giustizia perché contribuisse a consolarli per un dolore e un vuoto, comunque, incolmabile ma aggravato dall’atteggiamento e dalla risposta che ha dato la giustizia». (g.curcio@corrierecal.it)
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