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tra realtà e cinema

Antonio Zagari, il figlio della ‘ndrangheta che ha scelto di raccontare

Affiliato da giovanissimo, killer, latitante. Poi la rottura, i processi, il libro e la morte a 50 anni. La sua storia è arrivata alla Mostra del Cinema di Venezia con “Ammazzare stanca”

Pubblicato il: 07/09/2025 – 15:01
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Antonio Zagari, il figlio della ‘ndrangheta che ha scelto di raccontare

Quando Antonio Zagari nasce, la sera del primo gennaio 1954, le sue mani ancora umide di sangue e placenta sfiorano un coltello e una chiave. A metterglieli accanto è suo padre, Giacomo Zagari, ventiquattrenne affiliato alla ‘ndrangheta. Il coltello è il segno del comando, dell’onore e della violenza. La chiave, al contrario, rappresenta la resa, la delazione, la vergogna. Scegliere è un gesto simbolico, ma non c’è molto da scegliere: Antonio è nato dentro una famiglia di ‘ndrangheta e il suo destino, fin dal primo vagito, è un cammino già tracciato.
San Ferdinando è un paese agricolo della piana di Gioia Tauro. Poche strade, tante regole non scritte. Quando Antonio ha pochi mesi, la famiglia emigra nel Varesotto, a Galliate Lombardo, e poi a Buguggiate, in una casa poco più che rudimentale. È lì che passa l’infanzia, con un padre sempre più immerso nella criminalità, convinto che mettere al mondo figli maschi serva solo a rafforzare l’esercito familiare. Oltre ad Antonio, nasceranno altri tre fratelli maschi: Enzo, Andrea e Giuseppe. Anche loro, in modi diversi, finiranno risucchiati nell’organizzazione.
Antonio studia poco. Viene mandato prima in collegio religioso, poi in una scuola pubblica, da cui viene sospeso a 14 anni. Inizia a lavorare come garzone, ma senza convinzione. Quando il padre viene arrestato a Imperia, Antonio va a trovarlo in carcere. Giacomo si dichiara innocente, vittima di un complotto. È la scintilla: Antonio, ancora sedicenne, sviluppa un rancore profondo verso le istituzioni. Da quel momento, comincia a muovere i primi passi nell’organizzazione: trasporta messaggi, nasconde armi, partecipa a riunioni. Brucia una vetreria per pura antipatia verso i proprietari. In Calabria incontra Peppino Pesce, boss della potente cosca di Rosarno. È lui a conferirgli, nel 1971, l’affiliazione ufficiale alla ‘ndrangheta.
Crede nella “ragione sociale” dell’organizzazione, ma è un’illusione destinata a crollare. Lo scriverà anni dopo nel suo memoriale: “Mi resi conto che gli uomini che ne fanno parte sono in realtà una accozzaglia di assassini senza dignità”.
A 19 anni viene arrestato per contrabbando di banconote false tra Italia e Svizzera. Seguiranno anni di carcere, poi altre rapine, sparatorie, estorsioni. Il primo omicidio (alla fine saranno almeno 16) arriva il 26 maggio 1979: la vittima è Giuseppe Furnò, un siciliano che gestiva la prostituzione e taglieggiava commercianti “protetti” dagli Zagari. Antonio gli spara nel cortile di casa, a Gallarate.
La casa della famiglia Zagari, a Malnate in via Zara 8, diventa la base operativa della Locale della ‘ndrangheta nel Varesotto. Qui si pianificano colpi, traffici, omicidi. La droga diventa presto il centro degli affari: soprattutto eroina, con i rifornimenti che arrivano grazie ai legami con Jerinò, emissario delle cosche reggine e joniche. In Lombardia, gli affari si dividono anche con i catanesi Epaminonda e Santapaola, oltre che con i De Stefano. Malnate diventa snodo, base logistica, crocevia di potere.
Nel frattempo Antonio continua a uccidere. Nel 1981, Orazio Savoca. Poi una serie di omicidi tentati e riusciti, tra cui quello di Francesco Girardi, freddato nel cortile di casa sua a Varese. Lo stesso giorno muore anche Enzo Zagari, fratello di Antonio, in un incidente in moto. All’obitorio, Antonio si ritrova davanti al corpo del fratello e a quello di Girardi. A piangerlo c’è anche la figlia, che lo guarderà in aula anni dopo, durante il processo.
Il 13 maggio 1983 viene arrestato di nuovo. Dopo qualche giorno di interrogatori, decide di collaborare. Ma si pente subito e fugge. Torna a Malnate, si nasconde nei boschi e in una soffitta segreta. È lì che nel febbraio 1985 spara a due spacciatori: uno muore, l’altro scappa. Antonio fugge verso il Garda, poi si rifugia a Salò. Viene arrestato due mesi dopo, alla stazione di Brescia.
Sconta trent’anni di condanne, ma esce nel 1989 per decorrenza dei termini. La moglie chiede la separazione. Il padre, mai perdonato per la collaborazione fallita, lo considera un traditore. Per l’ambiente è ormai “cornuto”. Ma a quel punto Antonio ha deciso di muoversi su un altro fronte.
Antonio Zagari non ha mai accettato del tutto i metodi dell’Anonima Sequestri in Aspromonte. Già negli anni ’70, i rapimenti di Emanuele Riboli, amico personale, e di Cristina Mazzotti, avevano segnato per lui una frattura morale. Ma sarà solo tra il 1989 e il 1990 che, fingendosi affiliato, si infiltrerà davvero nell’organizzazione con un obiettivo preciso: sabotarne i piani.
A introdurlo nell’Anonima è Sebastiano Giampaolo, figura centrale dell’organizzazione. Antonio, però, aveva già avviato un canale segreto con il colonnello Gianpaolo Ganzer dei Carabinieri. Mentre il padre Giacomo cercava di spingerlo a dimostrare fedeltà con nuovi omicidi, lui prendeva tempo, cercando di scoprire i nomi delle prossime vittime.
Il 16 gennaio 1990, solo poche ore prima dell’azione, Zagari riesce a sapere che il bersaglio è Antonella Dellea, figlia di un imprenditore del Lago Maggiore. Avvisa Ganzer: nel blitz seguente, nel cortile della ditta Edilnafta di Germignaga, quattro sequestratori vengono uccisi, altri arrestati, tra cui anche Giacomo Zagari e Luigi Angioi.
Antonio, consapevole della vendetta in arrivo, cerca di defilarsi. Ma il 17 luglio 1990, due uomini – Mauro Lucchetta e Vincenzo Bruzzese – lo attendono sotto casa. Lui reagisce, spara, uccide Lucchetta e ferisce Bruzzese. Viene arrestato poche ore dopo.
Quell’episodio segna la rottura definitiva. Antonio Zagari diventa collaboratore di giustizia: le sue rivelazioni saranno decisive per l’Operazione Isola Felice, che porterà a decine di arresti tra Lombardia, Piemonte e Calabria.
Nel 1992 pubblica il libro “Ammazzare stanca – Autobiografia di uno ‘ndranghetista pentito” con la casa editrice Edizioni Periferia: è un’autobiografia lucida e brutale. Un documento storico, che racconta dall’interno l’evoluzione della ‘ndrangheta al Nord. “Non sono le sentenze della giustizia che mi preoccupano – scrive – ma quelle della ‘ndrangheta, che non concede appelli”. Nel 2004 muore in un incidente stradale. Fine della corsa.
Dopo il 1992 è uscita una nuova edizione del suo libro, con prefazione di Arcangelo Badolati, e la sua storia è tornata d’attualità di recente grazie al film di Daniele Vicari “Ammazzare stanca”, presentato alla Mostra del Cinema di Venezia, ispirato proprio suo testo pubblicato nel 1992.
Gabriel Montesi interpreta Antonio; Vinicio Marchioni è il padre Giacomo. Il film, prodotto da Rai Cinema e Mompracem con il sostegno della Calabria Film Commission, racconta senza retorica la storia di un ragazzo cresciuto dentro l’organizzazione e poi diventato assassino, latitante, infine scrittore. Vicari sceglie uno stile scarno, privo di spettacolarizzazione. Niente mitizzazioni, nessun romanticismo criminale: solo la banalità dell’obbedienza, la solitudine del sangue e l’illusione di potersi chiamare fuori. Il film non assolve né condanna. Mostra. E questo, forse, basta. (f.v.)

Foto di copertina tratta dal film di Daniele Vicari (nel riquadro il vero Antonio Zagari)

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