Politicamente corretto (tranne quando si parla di Calabria)
Mentre a Diamante c’era la psicosi del botulino c’era chi si divertiva a fare vedere De Martino e la sua ragazza a letto. A saperlo prima, magari, si abbatteva la psicosi del panino

Il politicamente corretto è ovunque. Non si può più dire “cieco” ma “non vedente”, “vecchio” ma “diversamente giovane”, “nero” ma solo se lo scrivi con la maiuscola e dopo aver fatto almeno un corso di autocoscienza su colonialismo e post-verità. Tutto giusto, ci mancherebbe. Ma questo esercizio di delicatezza semantica sembra avere un limite geografico ben preciso: finisce quando comincia la Calabria. Il caso De Martino ne è l’ennesima dimostrazione. Per chi si fosse distratto: video privati del conduttore finiscono online, parte un’indagine, e si scopre – o meglio, si ipotizza – che una “spia zero” abbia mostrato quelle immagini per la prima volta su una spiaggia di…Diamante, Calabria. Cioè quest’agosto mentre a Diamante c’era la psicosi del botulino c’era chi si divertiva a fare vedere De Martino e la sua ragazza a letto. A saperlo prima, magari, si abbatteva la psicosi del panino. Andiamo avanti. E’ subito rimbalzata sui media la solita equazione non scritta: “scandalo nazionale = traccia calabrese”.
Il presunto spione sarebbe fuggito senza pagare il conto del lido e del ristorante. Ma dove è scappato? Di dove era? A Diamante, d’estate, se sei del posto, ti riconoscono subito. Se sei di Cosenza e fuggi senza pagare, vieni beccato dalla zia della sorella del vicino che lavora al bar. Se invece sei uno dei tanti napoletani in villeggiatura – e nessuno vuole generalizzare, ma è una possibilità – magari puoi scappare inosservato. Eppure, l’unica cosa certa è che il sospetto è stato geolocalizzato in Calabria, quindi Calabria uguale colpevole. Fine dell’analisi.
Questo atteggiamento, più che razzismo dichiarato, è un’abitudine culturale: un pregiudizio travestito da “colore locale”, una forma di razzismo di serie B, che si attiva ogni volta che il Sud profondo può essere usato come sfondo comodo per qualche trama sporca. Se fosse accaduto in Toscana, probabilmente si sarebbe parlato di “stravagante turista”, a Milano di “falla nel sistema”, in Calabria, invece, è subito “ombre della malavita”, “terra di nessuno”, “zona grigia”. Tutto molto woke, finché non parliamo di noi.
La cosa buffa – e qui l’ironia si fa amara – è che anche i calabresi hanno interiorizzato questo schema. Io stessa, scrivendo ho fatto questo ragionamento: “No, non può essere un calabrese, sicuramente è un forestiero”. E per farlo, finiamo per cadere nello stesso errore: spostare il sospetto su qualcun altro, magari sui napoletani. E allora ci ritroviamo, pur volendo denunciare un pregiudizio, a costruirne un altro. Un paradosso tragicomico, di quelli che solo il Mezzogiorno sa raccontare con tale precisione antropologica.
Nel frattempo, il linguaggio continua la sua marcia trionfale verso l’inclusività, ma si ferma sempre qualche chilometro prima di Reggio. Perché se dici “Calabria” in un talk show, puoi ancora permetterti di strizzare l’occhio, sussurrare “’ndrangheta”, o semplicemente lasciare un silenzio ad effetto. Nessun conduttore ti correggerà. Nessun collettivo insorgerà. Nessun disclaimer apparirà in sovrimpressione.
E’ più comodo tenersi qualche stereotipo, anche ben incartato nel cellophane del linguaggio inclusivo. (redazione@corrierecal.it)
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