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l’intervista del corriere

Il caso Bibbiano raccontato da una scrittrice calabrese. Musco: «I titoli gridati non raccontano la verità»

Nata in Calabria e cresciuta nel giornalismo di inchiesta, evidenzia nel libro Demoni & Angeli come il rumore mediatico abbia soffocato la verità giudiziaria, lasciando invisibili i più fragili

Pubblicato il: 28/09/2025 – 9:00
di Francesco Veltri
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Il caso Bibbiano raccontato da una scrittrice calabrese. Musco: «I titoli gridati non raccontano la verità»

COSENZA Cosa succede quando la realtà dei processi si perde nel frastuono dei titoli urlati?
Il caso Bibbiano, esploso nel 2019 con l’inchiesta “Angeli e Demoni”, raccontava di presunti affidi illeciti di minori: bambini “strappati” alle famiglie, psicoterapie manipolatorie, persino accuse di elettroshock. Una narrazione da film dell’orrore che ha invaso giornali e talk show, influenzando opinione pubblica e politica prima ancora che i tribunali potessero pronunciarsi. Oggi sappiamo che quel “sistema” non esisteva, ma intanto vite e reputazioni sono state distrutte.
Simona Musco, caporedattore de Il Dubbio e giornalista calabrese, in Demoni & Angeli (Collana BeHopeBooks) racconta la distanza tra verità giudiziaria e spettacolarizzazione mediatica, mettendo al centro i più invisibili di tutti: i bambini.

Nel libro racconti quanto il clamore mediatico possa travisare la realtà. Quanto è difficile, oggi, fare giornalismo di inchiesta senza cedere alla pressione dei titoli sensazionalistici?

«È difficilissimo. Nel libro racconto come la narrazione mediatica spesso costruisca un “film parallelo” rispetto ai processi reali, fatto di omissioni e immagini che restano in vita più della verità giudiziaria. La difficoltà maggiore, oggi, sta proprio nel resistere a quella pressione che chiede titoli gridati, facili, capaci di alimentare la gogna mediatica. Fare giornalismo di inchiesta significa invece ascoltare i sussurri della verità, distinguere i fatti dalle suggestioni Credo che questo caso sia esemplare di tutto ciò che la stampa non dovrebbe fare: si è accettata in maniera passiva la versione della procura senza alcun vaglio critico, senza alcuna voglia di assistere alla formazione della prova, e da lì sono state costruite fake news che hanno invaso il dibattito pubblico. La stampa dovrebbe essere il cane di guardia del potere, ma sembra dimenticare che il potere non è solo quello politico. E anziché vigilare, ha amplificato».

Tu sei calabrese e prima di trasferirti a Roma hai iniziato in redazioni locali occupandoti di cronaca e di inchieste di ‘ndrangheta. Quanto le tue origini e la tua formazione nel Sud hanno influito sul modo in cui guarda e racconta le storie di ingiustizia?

«Essere cresciuta al Sud, in Calabria, e aver mosso i primi passi nel giornalismo locale, significa aver avuto a che fare con realtà segnate da fragilità sociali profonde e dalla presenza pervasiva della criminalità organizzata. Questa esigenza di raccontare il male per combatterlo ha però prodotto spesso e volentieri molta semplificazione, laddove serviva complessità. Per fortuna ho conosciuto molti giornalisti capaci di guardare oltre e questo, per me, è stato molto importante. Questa formazione mi ha insegnato a non fermarmi mai alla superficie, a cercare sempre le sfumature anche dentro le storie più drammatiche. Credo che questa attenzione alle radici dei problemi e alle persone più fragili abbia plasmato il mio modo di raccontare le ingiustizie».

Nel testo emerge chiaramente la sproporzione tra le accuse mediatiche e la realtà giudiziaria. Quale pensi che sia stato l’errore più grave commesso dall’informazione in quella vicenda?

«L’errore più grande è stato quello di confondere la cronaca con la spettacolarizzazione, trasformando un’inchiesta giudiziaria complessa in un racconto emotivo e semplificato. Non solo: dopo aver emesso una “sentenza mediatica” basata sugli atti di una sola parte – la procura – i giornali hanno abdicato al loro ruolo informativo. Non hanno seguito il processo, salvo ricomparire magicamente il giorno delle richieste di pena, contribuendo a fissare nell’opinione pubblica solo la prima versione: quella dei ladri di bambini, delle coppie amiche e omosessuali a cui regalare i minori, dei soldi e del sistema consolidato. Alla luce del processo, sappiamo che non c’è nessun sistema, nessun arricchimento, nessuna anomalia negli affidi. Questo pressappochismo ha prodotto danni enormi, ai singoli e all’intero sistema – questo sì – di cura. Gli effetti sui minori sono stati devastanti: privati della cura di cui avevano manifestato l’esigenza e che era stata certificata dai giudici minorili, si sono ritrovati dentro un vuoto. Il clamore ha portato persino a una riforma del diritto di famiglia – pessima secondo molti addetti ai lavori – approvata quando il processo non era nemmeno iniziato. Gli indagati sono stati mostrificati, insultati, minacciati, privati della possibilità di lavorare, spesso ridotti sul lastrico. Un processo non distrugge solo economicamente: spazza via affetti, legami sociali e professionali. La conseguenza peggiore, però, è sistemica: la caccia alle streghe ha minato la fiducia nei servizi, rendendo le famiglie più diffidenti e i servizi più cauti. Non è un caso se le violenze sui minori, soprattutto in ambito familiare, sono oggi in aumento».

Dopo aver analizzato un “caso nazionale” come Bibbiano, quali sono secondo te le fragilità più urgenti da raccontare nella Calabria di oggi, legate all’infanzia, ai servizi sociali o alla giustizia?

«La Calabria resta una terra fragile, soprattutto per quanto riguarda i servizi sociali, l’infanzia e l’accesso alla giustizia. In Demoni & Angeli mostro come la mancanza di strutture adeguate e di risorse possa generare falle enormi. In Calabria il numero di assistenti sociali è ancora troppo basso, come in tutto il meridione. Credo che sia urgente raccontare proprio queste fragilità: i bambini che non hanno strumenti di protezione, i servizi sociali sotto organico, le famiglie lasciate sole. Perché dietro ogni vuoto istituzionale si nasconde una storia di dolore che rischia di essere manipolata o ignorata».

Il libro mette al centro i bambini, spesso vittime silenziose di narrazioni e processi mediatici. Credi che in Italia esista davvero una cultura dell’ascolto dell’infanzia o i minori restano ancora gli “invisibili” della cronaca e della politica?

«I bambini sono stati al centro del caso Bibbiano, ma la loro voce si è persa nel rumore assordante dello scontro politico e mediatico. Questo dimostra che una vera cultura dell’ascolto non c’è ancora: troppo spesso i minori diventano simboli, bandiere, strumenti di narrazione. Invece bisognerebbe rimetterli davvero al centro, ascoltarli senza pregiudizi, garantire che la loro voce non venga sovrastata dagli adulti. Oggi, purtroppo, la visione adultocentrica continua a prevalere: i figli sono tornati a essere percepiti come “proprietà” dei genitori, più che come soggetti titolari di diritti. Questo li priva di protezione e li rende invisibili alla cronaca e alla politica». (f.veltri@corrierecal.it)

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