Le cose da fare a Cosenza, secondo Booking. A Catanzaro!
Volevo soltanto prenotare un B&B a Cosenza

Un gesto semplice, quasi banale nella sua quotidianità digitale: un clic, una data, un letto. Un soggiorno sobrio, essenziale, quasi monastico, senza troppe aspettative se non quella – legittima, direi – di pernottare nella città prescelta. E invece no. L’algoritmo di Booking.com, quell’oracolo imperscrutabile del turismo moderno, ha avuto per me altri piani. Piani ambiziosi, trans-provinciali, visionari persino, se vogliamo. Forse l’algoritmo conosce il mio spirito errante. E’ stata dura (ma in fondo divertente) spiegare a un cosentino autentico che c’è in famiglia cosa pensava l’algoritmo della sua città.
La prima proposta – comparsa con la solerzia inquietante tipica dei suggerimenti “personalizzati” – recita così: “Una volta arrivata a Cosenza ti proponiamo un’ esperienza culinaria con show cooking a casa di un locale a Catanzaro. 85 euro.” A Catanzaro… Proporre un’esperienza a Catanzaro come forma privilegiata di fruizione di Cosenza non è solo geograficamente discutibile, è culturalmente sospetto.
Il campanilismo che separa le due città non è materia da folklore: è architettura dell’anima, stratificazione storica, sottile astio metropolitano tramandato nei lasciti testamentari.
Non pago, l’algoritmo rincara la dose con un florilegio di esperienze dal sapore lisergico:. “Poi ti proponiamo un laboratorio di gelateria a Lamezia Terme, con musica anni Sessanta. Prezzo: 55 euro”.
Ora, nulla contro la gelateria pedagogica, e ancor meno contro la dolce nostalgia della musica anni Sessanta. Ma che relazione sussista fra un cono artigianale, Gino Paoli e la mia modesta volontà di trascorrere una notte a Cosenza, resta un mistero da consegnare agli annali dell’ermeneutica digitale. Segue un’esperienza zen: “Immergiti in un rifugio Bonsai ed esplora le bellezze naturali della Calabria.” Sempre a Lamezia. Costo: 522 euro per 72 ore. Le immagini del luogo proposto, tuttavia, restituiscono scenari di dubbio decoro paesaggistico: laghetti posticci, architetture ibride dal forte sospetto di regolarità edilizia, bonsai che paiono gridare vendetta (o, quanto meno, un travaso). Un’immersione sì, ma forse più nel surreale che nel naturale. E ancora: “Percorso didattico con i rapaci, nel cuore del Pollino.” Un’occasione imperdibile per osservare il battito d’ali della fauna selvatica… a oltre cento chilometri da dove intendevo dormire. E infine, l’apoteosi: “Giornata del pane a Zungri, con sosta alla grotta di Lourdes”. Ricordavo che un pane buono lo fanno a Tessano, senza dover arrivare in provincia di Vibo Valentia. Di Cosenza, tuttavia, nessuna traccia. Come se la città non esistesse se non come trampolino per l’altrove. Come se l’unico modo di viverla fosse evitarla.
Sorge dunque il dubbio: è questa la nuova frontiera del turismo algoritmico?
Un’esperienza che prescinde dal luogo, che ignora il desiderio del viaggiatore e lo riscrive in chiave evasiva, centrifuga, itinerante? Forse è così. O forse – più banalmente – l’intelligenza artificiale è ancora incapace di cogliere il non detto che serpeggia tra noi umani. Non sa, ad esempio, che per un cosentino dire Catanzaro è un atto gravido di conseguenze. Che il solo pensiero di un’esperienza “a casa di un locale catanzarese” può destare sospetto, ironia, talvolta persino lievi tremori. E io, che volevo soltanto pernottare a Cosenza.
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