Anche la ‘ndrangheta voleva uccidere Sigfrido Ranucci
A vent’anni dell’omicidio Fortugno, quello che è cambiato e quello che non abbiamo mai saputo

Una bomba sotto le auto di famiglia del giornalista Sigfrido Ranucci anchorman di Report e simbolo del giornalismo d’inchiesta italiano riaprono squarci di aria colombiana nell’Italia dove il governo sostiene di avere come bussola la legge e l’ordine. Già dal 2021 attorno al giornalista era stato aumentato il livello di protezione con due agenti di scorta giorno e notte. Protezione anche a casa. Qualcosa non ha funzionato. È evidente. Ranucci ha avuto anche problemi con la ‘ndrangheta, organizzazione che di solito evita questo tipo di intimidazioni. Era stato lo stesso Ranucci nel 2021 a rivelare un piano molto serio di eliminazione da parte di un narcotrafficante vicino alla ‘ndrangheta che avrebbe affidato a due killer stranieri l’esecuzione di un omicidio. Criminalità internazionale con rapporti con clan colombiani.
Pochi mesi fa due proiettili sono stati rinvenuti nei pressi dove è stata piazzata la bomba. Clima pessimo per i giornalisti senza peli sulla lingua. Pensavamo bastassero le querele temerarie a provare a zittire le notizie. Sono tornate le bombe come un trentennio fa. Non facciamoci intimidire. Ne conveniamo tutti, o no?
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Vent’anni fa l’omicidio di Francesco Fortugno, vicepresidente del Consiglio regionale ucciso in un seggio delle prime primarie del Pd a Palazzo Nieddu a Locri. Il più grave omicidio politico mai avvenuto in Calabria. Al di fuori dalla retorica delle celebrazioni cosa è cambiato e cosa è rimasto quasi immutato di quella ormai lontana stagione che vide riscoprire la Calabria come emergenza criminale nazionale con giornali e media che furono costretti a rimetterla in pagina quella regione cui non importava più a nessuno. Certo, c’erano le eccezioni per fortuna. Scrisse Peppe D’Avanzo all’indomani su Repubblica in un editoriale molto lucido: «Per l’assassinio di Francesco Fortugno che almeno si evitino le lacrime di coccodrillo. Nessuno può dirsi innocente. Tutti sapevamo che presto, in Calabria, ci sarebbe scappato il morto eccellente. Chiunque da mesi poteva coglierne i presagi in una regione schiacciata dalla criminalità organizzata». Vent’anni dopo a me sembra che si celebri un martire inconsapevole del suo destino che si chiamava Fortugno. Vent’anni dopo qualche sopravvissuto alle minacce come Agazio Loiero, all’epoca presidente della Regione e decisore di riforme che diedero fastidio ai poteri occulti, è uno dei pochi ad avere una visione di quello che accadde nelle stanze del potere. Forse dovrebbe dirci qualcosa in più.
In quella stagione nacque la più alta mobilitazione dal basso di movimenti antindragheta e il suo apogeo partì proprio dalla Locride. Il geniale slogan di Aldo Pecora “E ora ammazzateci tutti” diventò parola d’ordine che rimbalzò in televisione nello show di Celentano creando nuove consapevolezze che furono raccolti da numerosi studenti calabresi fuori sede di quella generazione che assieme a loro coetanei delle regioni in cui studiavano formarono un nuovo pensiero. Le istituzioni ne fecero tesoro breve ma il compito dei movimenti oltre non poteva andare. Le persone sono rimaste e sono opinione pubblica che cerca ancora motivazioni e impegno.
Nello stesso periodo si è formata anche una nuova generazione di giornalisti che alzarono di molto la denuncia attraverso l’inchiesta consentendo a nuovi professionisti di trovare affermazioni personali significative.
Dobbiamo dire che a distanza di quattro lustri, al netto delle sentenze contro l’ala militare della vicenda, resta oscuro il movente centrale di quel delitto che Piero Grasso, all’epoca Procuratore nazionale antimafia aveva equiparato all’omicidio di Aldo Moro. Per capire i contesti più seri dell’oscura vicenda bisogna ancora leggere l’unico libro dedicato a quell’omicidio: “Ammazzati l’onorevole” del compianto collega Enrico Fierro che scavò bene in quel verminaio.
La politica si limitò a scaricare qualche pecora nera rimasta impigliata nei danni collaterali del delitto. Ci si adattò al nuovo corso quasi facendo finta che nulla fosse accaduto.
La ‘ndrangheta autrice del delitto in combutta con poteri rimasti oscuri ne trasse esempio per rigenerarsi in forme più contemporanee diventando capitalismo criminale sempre più legata al narcotraffico internazionale.
A differenza di Cosa Nostra uscita devastata dalla stagioni delle stragi, mamma ‘ndrangheta come una moderna Araba fenice ha assunto nuovi connotati detenendo ancora potere quasi immutato.
Basta scorrere le notizie del giorno per verificarlo. Tra Bologna e Roma arresti nel clan Piromalli e Molè per controllo dei parcheggi dell’aeroporto emiliano, sequestrato un milione e mezzo di euro, come spesso capita coinvolti due commercialisti dalla fedina immacolata. A Nicola Femia di Gioiosa Jonica di euro ne hanno sequestrato invece 45 milioni, cinque volte il Bilancio della regione Calabria. Il business di questo signore (presunto innocente beninteso) è il gioco d’azzardo e i suoi interessi vanno oltre l’Emilia raggiungendo Gran Bretagna e Romania. In Commissione antimafia sono arrivate autorità argentine per raccontare come il narcotraffico ha trovato nuove piattaforme in una nazione che ha calabresi di terza generazione disponibili ad offrire collaborazione.
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Ci eravamo dimenticati di Buccinasco alle porte di Milano, periferia che ha creato materia di film cult ispirati a romanzi criminali di altri nostri emigrati che non volevano rimanere dei manovali. La cronaca ci racconta ora di arresti degli eredi di nuova generazione di chi era partito tra gli Ottanta e i Novanta. Perché anche la gran parte dei nostri mafiosi abbandonano le aree interne contribuendo allo spopolamento. Giuseppe Grillo, 51 anni, cognato di Rocco Barbaro ‘u Sparitu, viene considerato la mente e l’organizzatore del narcotraffico di cocaina tra l’Italia e il Sudamerica. Da Buccinasco i calabresi operano meglio di Platì anche se sempre in stretto raccordo con la casa madre.
Nelle chat criptate (quelle che Gratteri ha ben raccontato nelle sue lezioni in tv) probabilmente si faceva chiamare Putin. I nickname si prestano al racconto di colore con l’acquirente albanese che si fa chiamare “Berlusconi” e non manca anche un “Andreotti”. La sostanza dell’accusa racconta invece di 530 chili di cocaina comprata in Sudamerica, trasportata da corrieri cinesi via Anversa e Gioia Tauro per poi essere venduta nelle piazze e nei negozi di spaccio. Il ricavato ipotizzato è di 19 milioni di euro.
E queste notizie recenti si ripetono ogni giorno tra Calabria e l’altrove in una regione che di tanta ricchezza illegale non raccoglie nessun indotto.
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Io che mi applico molto a far emergere la Calabria positiva che per fortuna esiste e racconto devo pur riflettere sull’ultimo rapporto Eurispes che mi segnala una povertà regionale che riguarda il 36 per cento dei residenti e siamo persino ultimi d’Italia per partecipazione sportiva. Il 43% dei calabresi, quasi la metà dei residenti, invece non partecipa ad alcuna attività culturale o d’intrattenimento.
Una regione malata in una Nazione immobile. Al prossimo convegno la Calabria raccontatela con più realismo. Ricordandovi che sono passati vent’anni dall’omicidio Fortugno e che la ‘ndrangheta resta ancora il brand di maggiore successo della nostra regione. (redazione@corrierecal.it)
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