Eraldo, da Falerna a New York e ritorno: «Vi racconto il mio sogno americano»
È partito nel 1961 da un camion usato, poi ha vissuto il boom edilizio della Grande Mela. I ristoranti e le pizzerie per i «paesani» e quella volta con Fortugno

FALERNA Questa è la favola di un nostro conterraneo partito per gli Stati Uniti all’inizio degli anni 60 per seguire l’amore e rientrato nella sua Falerna dopo aver “costruito” un pezzo di New York. Come nella celebre massima incisa su una delle pareti del Museo dell’immigrazione di Ellis Island: «Sono venuto in America perché mi avevano detto che le strade erano lastricate d’oro. Quando sono arrivato ho visto che le strade non sono lastricate affatto; anzi ho scoperto che ero io a doverle lastricare».
Capitolo 1. Da Corleone a New York
Un giovane carabiniere di Falerna arriva alla stazione dei treni di Sant’Eufemia per salutare i suoi genitori. Ha da raccontare tante di quelle cose: tra tutte gli arresti di mafiosi eccellenti nella Corleone già allora capitale della mafia. Conosce una ragazza che ha le sue stesse origini ma che parla già l’americano perché ha vissuto l’infanzia in Pennsylvania. Amore a prima vista e trasferimento Oltreoceano. «Io non ho scuole – dicevo – avevo la quinta elementare ma ho imparato un po’ a parlare».
Ora un ex carabiniere deve reinventarsi e così – su suggerimento della donna divenuta intanto sua moglie – prendendo spunto da un ritaglio di giornale compra, con tutti i risparmi che aveva, un camion con annessi attrezzi da lavoro: è la svendita annuale di un colosso come ConEdison che allora ha già quasi 140 anni di storia. Da quell’annuncio sul giornale inizia l’impresa in proprio: «Mi sono messo per conto mio grazie a quella svendita di 300 dollari, io ne avevo messi da parte 400… Una cifra che mi permise di partire con quel camion su cui trovai compressore, pico, pale, palanchine e tutto quello che serviva per i cantieri. All’asta nessuno bettava (offriva una cifra, ndr) è così arrivò il mio turno…».
Quanto basta per iniziare a lavorare da carpentiere e muratore. Un ragazzo nero come aiutante e i marciapiedi di Long Island da pavimentare. È il 1961 e il sogno americano di Eraldo, questo il suo nome, può avere inizio. Sarà una strada lastricata di successi.
Nel 1961 quel distretto di New York presenta ancora poche case e molta terra da coltivare: la farm dell’immigrato, tra patate e zucca, replica un pezzettino di Calabria negli States. È l’inizio di una favola che sta per realizzarsi, ma quando il lavoro inizia ad ingranare non mancano momenti difficili e personaggi e scene da film, da «un istriano che mi ha preso a ben volere», risolvendo i problemi con sei sindacalisti irlandesi, ai primi grandi lavori in alluminio da carpentiere o in cantieri come quello per la costruzione di un enorme shopping center, durata un anno.
Nel 1962 nasce il primo figlio, Emilio, cui seguirà la nascita di Lucia, ad aprire un decennio epico e pionieristico: «La mia divisa era un blue jeans, il metro in tasca e un lapis dietro l’orecchio, ricordo che tornavo a casa in camion di notte verso Long Island ai tempi in cui l’inverno a New York nevicava e faceva davvero freddo».
Capitolo 2. Dai marciapiedi ai palazzi (e la targa di Fermi)
La piccola impresa edilizia è intanto sbarcata a Manhattan e tra un appalto e un altro entra nell’orbita dei lavori che contano. Sono gli anni dell’espansione della Grande Mela e, in parallelo, della Columbia University. I blocchi del campus nell’Upper West Side vanno componendosi è c‘è bisogno di squadre preparate e veloci che “svuotino” vecchi palazzi e ridiano loro nuova vita: servono residenze per studenti e docenti. In un vecchio laboratorio il martello pneumatico di Eraldo fa fatica a demolire: c’è qualcosa che si oppone. Con pazienza e cura, l’operaio-imprenditore calabrese e le sue maestranze fanno riemergere – custodita in un blocco di cemento – una targa che, guarda caso, riporta all’Italia: indicava il laboratorio di Enrico Fermi che negli anni 30 proprio alla Columbia lavorava al cosiddetto Manhattan Project, il programma segreto per sviluppare la prima bomba atomica. La targa viene consegnata ai vertici dell’università: per l’imprenditore venuto dalla Calabria un riconoscimento di profonda gratitudine.
L’attività principale diventa dunque la ristrutturazione di palazzi da destinare a studenti, aule e docenti: si tratta di grandi demolizioni come quella che interessa l’edificio di Riverside sulla 125esima strada, dove dopo i lavori furono creati 44 appartamenti per i professori dell’università.
Le tappe e i successi della sua vita hanno il nome degli incroci su cui sorgono i palazzi che ha ristrutturato come general contractor per la Columbia: circa 700 building come li chiama Eraldo. E poi ci sono i ristoranti che nel frattempo inaugura. «Noi italiani – dice – l’America l’abbiamo scoperta, costruita e poi abbiamo anche insegnato a mangiare agli americani… ».

Capitolo 3. Alla conquista della Grande Mela
Siamo in pieno boom edilizio e gli affari vanno a gonfie vele. Come sempre accade, l’onda crescente ha una risacca che però non intacca il successo della Barletta – questo il cognome di Eraldo – Engineering Corporation: superati i ‘70 siamo negli anni bui di New York. Durante il periodo della Tolleranza Zero del sindaco Rudy Giuliani un vecchio albergo di Times Square rinasce come residenza di lusso: esattamente 40 anni fa, tra il 1984 e il 1985, in tre mesi viene ristrutturato l’ex Somerset hotel sulla quarantasettesima strada tra sesta e settima avenue. «Quando l’ho preso dormivo in una carriola con la segatura dentro tra mucchi di sabbia e topi – ricorda –. Facevamo i turni dalle 8 alle 16 e dalle 18 alle 3 di notte: lì abbiamo creato 103 appartamenti nella zona delle gioiellerie di Diamond Center, 17 piani demoliti gettando detriti nei canali di 4 maxi ascensori».
E poi tre penthouse affacciate su Broadway ma anche palazzi a rischio crollo e rinati dopo interventi che avevano del miracoloso: «Ricordo di un incendio in un palazzo a Hell’s Kitchen, tra la quarantacinquesima strada e nona avenue: lo comprai chiamando da una cabina telefonica quando le fiamme si erano spente da poco, e già la sera c’è il cartello vendesi…».
Sono lavori da circa 250.000 dollari in tre o quattro mesi, dunque l’attività nel corso dell’anno è molto remunerativa. Eraldo e il suo nuovo socio continueranno autonomamente nel settore immobiliare inanellando compravendite nella Manhattan che nel frattempo sta risorgendo dagli anni bui.
Seguono successi imprenditoriali che permettono a Eraldo di mandare il figlio Emilio a Firenze per studiare architettura, dove si laurea prima di ritornare a New York per un master al Pratt Institute. «È stato anche candidato senatore all’estero. Ancora oggi gli dico venitìnni, hìgliuma! (Torna in Calabria, figlio – ndr). Ma la loro vita oramai è lì: suo figlio, mio nipote Francesco, è di casa nella famiglia Witkoff, è il migliore amico del figlio» del consigliere di Trump in politica estera, una delle figure chiave della gestione della crisi mediorientale. «Ai funerali dell’altro figlio morto per overdose – racconta – Francesco era nella loro auto». Eraldo Barletta non fa mistero delle proprie simpatie per Trump.

Capitolo 4. Le pizzerie e i ristoranti a Manhattan
Il nastro si riavvolge e arriva agli anni Ottanta e Novanta, quelli in cui, tra un maxicantiere e un altro, nascono pizzerie sparse per Manhattan (il gruppo Barletta arriverà ad averne 36, «in una notte ripulivamo un magazzino di un palazzo che stavamo ristrutturando, poi bastavano acqua, farina e un forno per avviare una nuova pizzeria») e ristoranti di alta cucina: Buon Appetito in Bleecker street, o Dopo Teatro vicino a Times Square (44esima strada tra sesta e settima avenue), frequentato soprattutto dagli attori di off Broadway. «Ma nei miei locali, per trent’anni ho portato anche le maestranze messicane che lasciavano tardi il cantiere con me e non potevano rientrare a casa, erano tutti miei ospiti. Loro prendevano la paieda (paella, ndr), io la stecca (steack, bistecca). Sai, nella fame c’ero passato e sapevo cosa significava non avere il latte per tuo figlio. Piuttosto mi facevo prestare i soldi per pagare i miei dipendenti e a Natale c’era un regalo per tutti dalla lavapiatti allo chef al contabile che non ho mai cambiato in 47 anni». La mente va a Brode, polacco, «così legato a me da prendere l’aereo per venire al funerale di mio fratello Giovanni, in Italia. Ho sempre rispettato i miei collaboratori. Penso che la manodopera in un’impresa sia importante tanto quanto il padrone».


Eraldo arriva ad avere oltre 100 addetti nella ristorazione tra Uptown e Midtown, i locali – molti sono stati ceduti ma alcune insegne ancora resistono, dopo decenni – hanno nomi italiani come Cascina e Donna Margherita, non mancano due gelaterie, per cui Barletta va a Longarone per comprare la strumentazione Carpigiani, e altre attività anche nella parte bassa dell’isola, al civico 119 di South Street Seaport, «all’altezza del molo del ponte di Broccolino» (Brooklyn) dove c’è lo storico quartiere marinaro del “fish market”.
«Un paesano – ripete – non ha mai pagato nei miei locali, i manager erano stati autorizzati a non far pagare chiunque facesse il nostro nome, una ventina di clienti al giorno consumava gratis… ».
Tra i tanti calabresi che Barletta conobbe e accolse ci fu anche Francesco Fortugno, in occasione di un party di una delegazione della Regione Calabria, esattamente venti anni fa, qualche giorno prima che venisse ucciso a Locri.
Capitolo 5. Tra il Pantheon e Falerna
La politica, appunto. «Ho notato che qui in Italia si parla sempre di politica, lì soltanto quando si vota, poi si parla solo di lavoro…».
Il tempo di questa lunga chiacchierata di inizio autunno vista mare sta per finire. Una domanda sulla mafia newyorkese non può mancare: «Io sono per metà un ragazzo di strada e per metà un poliziotto, posso dire che non ho mai pagato il pizzo a nessuno e proprio perché ero pulito ho potuto lavorare con la Columbia University. Di certo i Gambino, i Genovese, i Bonanno avranno mangiato anche nei nostri locali. Ma io ho la coscienza pulita. Ho fatto solo del bene e non devo ringraziare nessuno, sono un uomo libero».
Un’altra delle massime di Eraldo: «Se fai un palazzo e metti poco cemento nelle fondamenta, poi crolla». Una bussola che lo ha indirizzato in sei decenni di successi. Gli ultimi? Due case vacanze a Roma, in zona Pantheon, suo secondo buen retiro italiano, dopo l’amatissima Falerna per cui oggi Eraldo ha un sogno: costruire una passeggiata che la unisca a Gizzeria per rendere fruibile non solo in estate questo tratto di costa a cui è davvero tanto affezionato. Ma non è facile: «Ho costruito mezza Manhattan ma non riesco a fare nemmeno un varco per arrivare agevolmente in spiaggia, quanta burocrazia qui in Italia…» sorride amaro salutandoci dal bordo della Statale 18, osservando l’orizzonte e ricordando i tempi in cui la Marina di Falerna non esisteva e uno dei primi insediamenti fu il distributore di benzina Gulf visibile ancora oggi – il gestore è cambiato – lungo la Tirrena: era collegato alla corrente elettrica tramite un gruppo elettrogeno, «così potevamo vendere i gelati».
Alla soglia dei novant’anni, un uomo ha ritrovato le sue radici e oggi vive di ricordi pensando agli anni d’oro, tra l’affetto di figli e nipoti, rimpianti e assenze come quella dell’amata moglie venuta a mancare, le olive da raccogliere e l’orticello “benedetto” da una statua di San Pio che occhieggia da una nicchia nella roccia (foto in basso). Sembra una favola ma non è altro che il racconto – per sommi capi – della vita di Eraldo Barletta detto “Harry”. Sessant’anni che sembrano un film. Da Falerna a New York e ritorno. (e.furia@corrierecal.it)

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